Data la discordanza di pareri che il fenomeno Hunger Games ha pian piano portato alla luce sia in patria che qui in Italia, tra pareri positivissimi e pareri negativissimi, tra lettori giovani e lettori adulti, il blog Sangue d'inchiostro ha deciso di dar voce alla breve analisi di un professore di letteratura italiana e latina in un Liceo Classico. Il Prof.Italo Pellegrino afferma di essere una creatura ultracentenaria creata ai tempi degli antichi Romani, laureato in Lettere Classiche - eh bè - , lettore vorace e amante del genere fantasy, annovera tra i suoi scrittori preferiti Catullo, Cesare, Tolkien, Pullman e Grossman. Ha scoperto e amato la trilogia della Collins grazie ad un suo alunno ed ora sogna segretamente di creare un'Arena in cui rinchiudere e torturare tutti i suoi studenti.
Articolo a cura di Italo Pellegrino
Ha fatto molto discutere, e scrivere, il successo del genere fantasy in questi ultimi anni. Critici e sociologi hanno visto in questi romanzi un desiderio di fuga dal presente, come se fosse difficile accettare un mondo in cui tutto pare cristallizzato in grigia decadenza. Eppure la trilogia di Suzanne Collins sembra non rispondere affatto a questa analisi. Non è una novità immaginare un mondo vittima della guerra e sopravvissuto a se stesso, basti pensare a Terry Brooks o a Stephen King. Tuttavia qui non si torna ad una sorta di strano Medioevo, permeato di magia. Gli uomini, invece, sono schiavi di una società dominata dai mass media. La televisione ammansisce, intimorisce e droga e allo stesso tempo sfrutta la vita fino alle estreme conseguenze. La televisione, e il reality show, sono qui chiari strumenti politici e di repressione.
Come ai tempi dell’antica Creta, in cui si sacrificavano fanciulli e fanciulle al Minotauro, qui ragazzi e ragazze sono “tributi” da sacrificare al potere. Se nel fantasy la lotta tra bene e male è il perno centrale dell’intreccio, negli Hunger Games è sempre più sfumata e confusa, fino a confondere protagonisti e lettori. Il potere, il desiderio di controllare, oltre a quello, più elementare, della sopravvivenza, toglie poi ogni colore alla vita. Non è un caso che i colori accesi e forti, nei romanzi, siano quasi esclusivamente quelli spettacolari, e falsi, degli show televisivi. Man mano che si avanza nella lettura ci si rende conto che anche la speranza si affievolisce. Anche quando i sottomessi si ribellano all’oppressore sembra che si rappresenti la necessità di avere speranza, più che la fiducia in essa. Katniss, la protagonista , la Ghiandaia imitatrice, simbolo della lotta per la libertà, è un’eroina costretta ad essere tale e che paga la scelta di lottare perdendo in umanità , o meglio sacrificandone significativi aspetti.
Suzanne Collins è spietata: lottare brucia. La lotta divora interiormente i protagonisti, non concedendo loro di essere veri, costringendoli a indossare maschere necessarie ad una società che si nutre di eroi da reality . La narrazione procede in maniera incalzante, con il dovuto tributo di vittime e vari momenti di forte pathos, quando la morte sorprende, nel viso di un “gladiatore” morente, il bambino che non è potuto essere. Pare così difficile che trionfi il Bene. E infatti qui il Bene non riesce ad imporsi davvero. Anche il vero amore, infine, dovrà lottare ogni giorno per tentare di sopravvivere alla sfiducia e al tradimento di ogni speranza. E così la parola chiave di questo fantasy è dolore. E il dolore va insegnato per imparare a vivere, anche in un fantasy. Una scommessa vinta, Suzanne Collins…