Hunger – Steve McQueen, 2008

Creato il 10 luglio 2014 da Paolo_ottomano @cinemastino

Raccontare un dramma per cui non ci sono parole soprattutto con le immagini, appunto senza parole: questo fa Hunger, privilegiando il sonoro dell’ambiente ai dialoghi per la maggior parte della sua durata, usando anche la colonna musicale con molta parsimonia. La storia è quella di Bobby Sands, prigioniero politico – status che non verrà mai ufficialmente riconosciuto a nessuno degli altri detenuti – e membro della P-IRA, che verso i due terzi del film decide di iniziare lo sciopero della fame. L’azione verso la quale tutto quello che è successo fino a quel momento ha condotto, estrema ratio, conseguenza necessaria dopo che si sopporta la routine di un prigioniero politico-tipo. Privazione dei diritti umani basilari, dei quali il più fondamentale è la dignità. Non sono, infatti, le condizioni igieniche disumane, la mancanza di cibo e di luce, o di un materasso senza vermi, il male peggiore: è quando queste condizioni migliorano che lo spirito, i nervi dei combattenti sono messi a dura prova. Anche se la tentazione di cedere a una camicia pulita non dura mai più di qualche secondo. E allora si torna a protestare imbrattando i muri di merda e subire, a testa alta, la frustrazione dei secondini a suon di manganelli e pugni nei denti. Tutto girato con uno stile crudo e necessario per restituire il senso della sofferenza raccontata, senza però sfociare nella pornografia, passatemi l’espressione. Qualcosa è lasciato immaginare allo spettatore, anche grazie ai frequenti indugi sui dettagli, sui particolari che scompongono i corpi per rivelare l’identità e i caratteri dei personaggi. E ci perdoni Bazin se, in questo caso, il cinema è in grado di imprimere la morte sulla pellicola (o un sensore digitale) senza privarla della sua dignità. Basti pensare alla macrosequenza iniziale, dov’è introdotto uno dei secondini che immerge più volte le mani nell’acqua per lavarle e dare sollievo alle nocche, provate dalle botte che dà ai carcerati; sequenza che assume tutto un altro significato quando è riproposta accanto a chi porta i segni ancora freschi di quelle botte, che ci restano impressi non solo per il tempo di permanenza sullo schermo, ma soprattutto perché così ingiuste. Accanto a tanta crudezza, il ritmo del racconto scorre lento verso una sola meta possibile: la morte, appunto, che per quanto possa sembrare miserabile quando la si assaggia un giorno dopo l’altro, non lo è. Perché la si è scelta, come unica alternativa alla rinuncia della propria identità.


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