Hyman Minsky (1919-1996) è stato uno dei più importanti esponenti della scuola post-keynesiana di teoria economica. Allievo di Joseph Schumpeter e Wassily Leontief, il suo lavoro parte da una lettura di Keynes alternativa rispetto a quella dominante degli anni del dopoguerra (dominante ancora oggi, sia pure aggiornata), la cosiddetta sintesi neoclassica, che Joan Robinson, allieva diretta di Keynes, definì “bastard Keynesianism”, nel senso letterale di “figlio illegittimo”, poiché cercava di riconciliare la Teoria Generale keynesiana con la precedente economia neoclassica, senza cogliere la rottura teorica tra i due approcci.
In particolare Minsky si concentra sull’importanza del settore finanziario, quindi del credito e delle “bolle”, nella dinamica del ciclo economico. La sua “ipotesi di instabilità finanziaria” è stata associata, anche in ambito mainstream e sia pure con alcune differenze non secondarie, alla crisi dei mutui subprime che ha scatenato la crisi finanziaria negli Stati Uniti. Il Minsky moment è diventato così proverbiale tra gli economisti, che sono tornati a valutare i pericoli derivanti dalla fine della “repressione finanziaria”, ma ancora stentano ad accettare le conseguenze di Minsky sulla politica economica. Di particolare rilevanza inoltre nel pensiero minskyano è la moneta endogena. Diversi allievi di Minsky sono oggi raccolti intorno al Levy Institute di cui Minsky fu “distinguished scholar” e tra i promotori della Modern Money Theory, o neocartalismo.
La Fondazione A.J. Zaninoni e l’Associazione “Economia Civile” hanno organizzato nei giorni scorsi il convegno “La crisi finanziaria e i suoi sviluppi: gli insegnamenti di Hyman Minsky”. Dai materiali del convegno segnaliamo che MicroMega ha pubblicato l’intervento di Alessandro Roncaglia “Hyman Minsky e la crisi” (che ripubblichiamo) e quello di Roberto Petrini “Crisi e teorie economiche, cambia il vento?”
L’audio completo della conferenza può essere ascoltato sul sito di Radio Radicale.
Hyman Minsky e la crisi
A cinque anni dallo scoppio della crisi il bilancio sull’efficacia delle contromisure che sono state adottate appare completamente negativo. C’è però una ragione di ottimismo: il dibattito tra gli economisti si è riaperto.
di Alessandro Roncaglia
L’argomento del convegno, il pensiero di Hyman Minsky e gli insegnamenti che ne possiamo trarre per la crisi attuale, è in forte corrispondenza con gli obiettivi dell’associazione Economia civile, che ha organizzato questo incontro. I nostri riferimenti culturali indicano infatti chiaramente che per economia civile non intendiamo il settore non profit considerato come un terzo settore dell’economia in opposizione a Stato e mercato, come fa una vasta letteratura cattolica, ma una concezione dell’economia e della società tutta, che pur all’interno di un’economia sostanzialmente di mercato (per quanto coesistente con un ruolo rilevante del settore pubblico) pone a obiettivo centrale lo sviluppo civile della società nel suo complesso, tramite un insieme di regole e interventi pubblici ma anche tramite lo sviluppo e la difesa di una cultura civica, che nel nostro paese è ancora troppo poco diffusa. Credo di poter dire che Hyman sarebbe stato d’accordo con questa impostazione. Ad essa infatti ha fornito un importante contributo scientifico analizzando il modo di funzionare dell’economia capitalistica e mettendone in luce l’intrinseca instabilità e la propensione a cadere ripetutamente in situazioni di crisi. In questo modo Hyman poteva indicare a quali politiche ricorrere per rendere meno fragile l’economia e per sostenere l’occupazione, che costituiva per lui un obiettivo centrale. Anzi, proprio alla piena occupazione erano dirette le sue proposte di considerare il governo come datore di lavoro di ultima istanza, che affiancasse il ruolo comunemente attribuito alla banca centrale di prestatore di ultima istanza.
Provo a sintetizzare in tre punti il contributo di Hyman: incertezza, fragilità finanziaria, money manager capitalism. Nel suo primo importante libro, John Maynard Keynes, del 1975, Hyman propone una interpretazione di Keynes diversa da quella dominante della cosiddetta sintesi neoclassica di Hicks e Samuelson, ma anche da quella prevalente tra i post-keynesiani allievi diretti di Keynes a Cambridge, come Kahn e Joan Robinson. Minsky infatti nella sua interpretazione attribuisce un ruolo importante all’incertezza, discussa da Keynes nel suo Treatise on probability del 1921. L’incertezza non è considerata una caratteristica indefinita, contrapposta al rischio probabilistico; ma il caso generale di un continuum che ha ai suoi estremi la certezza assoluta e l’incertezza totale. Nella realtà ci troviamo comunemente in situazioni intermedie. Così Keynes, quando parla di grado di confidenza nell’argomento, sottolinea le differenze esistenti tra situazioni in cui l’incertezza è più o meno grande: ad esempio le decisioni d’investimento che riguardano un orizzonte temporale lungo vanno distinte da quelle sui livelli di produzione che riguardano un orizzonte temporale decisamente più breve.
Questa nozione di incertezza è alla base della teoria della liquidità di Keynes, cioè la spinta a detenere attività liquide per fare fronte a cambiamenti imprevisti nella situazione, ed è alla base della descrizione dei mercati finanziari come fondati su convenzioni adottate dagli operatori, cui ci si riferisce come al clima delle opinioni che possono cambiare anche bruscamente di fronte a modifiche della situazione.
Su questa base, e utilizzando in modo innovativo l’analisi dei flussi di fondi della tradizione di Irving Fisher, Minsky costruisce la sua teoria della fragilità finanziaria endogena: una teoria che avrebbe dovuto fruttargli il Nobel, se il comitato di Stoccolma fosse stato meno conservatore, meno orientato verso le teorie liberiste, che sostengono il mito della mano invisibile del mercato basandosi su assunti barocchi come quello di una economia a un solo bene o dalla quale l’incertezza sia completamente assente. Per questa teoria possiamo fare riferimento ai saggi raccolti nel libro Can “It” happen again? Essays on instability and finance, del 1982; il riferimento del titolo è alla Grande Crisi del 1929; la profezia di Hyman è appunto che una crisi di quelle dimensioni può ripresentarsi, come appunto è avvenuto.
Minsky descrive l’economia come un sistema di flussi di attività e passività; in questo schema d’analisi introduce la distinzione tra i) situazioni coperte, in cui i flussi di entrata previsti più che coprono per tutti i periodi a venire gli esborsi per gli interessi e gli ammortamenti sui debiti, ii) situazioni speculative, in cui la copertura è assicurata per gli interessi che man mano maturano ma non per l’intero ammontare delle rate di ammortamento del debito, per cui l’agente economico sa già in partenza che sarà costretto a ricorrere al mercato finanziario per finanziare la propria posizione, e infine iii) le situazioni di Ponzi finance, in cui il debito cresce nel tempo per l’impossibilità di fare fronte agli oneri per interessi e ammortamenti, come avviene ad esempio quando si specula sull’aumento di prezzo di un immobile ricorrendo a sempre nuovi prestiti per pagare le rate del mutuo.
All’interno di questo schema appare chiaro come per la stabilità dell’economia sia decisiva la correttezza delle valutazioni degli operatori economici sull’andamento futuro dei flussi di attività e passività, che sono ovviamente incerti. Minsky richiama al riguardo la nozione keynesiana di grado di fiducia, che è soggettiva: è l’operatore che si sente più o meno sicuro delle sue valutazioni, nel nostro caso delle sue valutazioni sull’andamento dei flussi di attività e passività e quindi sulla solvibilità futura delle sue posizioni. Sulla base del proprio grado di fiducia, l’operatore determina i margini di sicurezza da mantenere per fare fronte a cambiamenti nella situazione e assicurare la solvibilità delle proprie posizioni, che si tratti di posizioni coperte o speculative o Ponzi.
Minsky rileva che quando l’economia va bene e il clima delle opinioni migliora la quota delle operazioni speculative e Ponzi tende a crescere, rendendo più fragile la situazione finanziaria dell’economia. Inoltre in una fase di tranquillità il grado di fiducia degli operatori nelle proprie valutazioni tende a crescere e i margini di sicurezza vengono corrispondentemente ridotti. Gli stessi regolatori – sempre sotto pressione da parte degli operatori del settore – tendono a lasciare briglie sempre più sciolte al mercato. Ma se i tassi d’interesse crescono e/o l’economia inizia ad andare meno bene, le operazioni coperte possono diventare speculative e quelle speculative operazioni Ponzi. Specie nel caso delle operazioni Ponzi, quando la tendenza apparentemente inarrestabile all’aumento dei prezzi delle attività si esaurisce – si pensi a quanto è accaduto nel mercato immobiliare statunitense –, il clima delle opinioni muta bruscamente e gli operatori non riescono più a finanziare le proprie posizioni scoperte, portando a una liquidazione delle attività, quindi a un crollo ulteriore dei prezzi, con una crisi di liquidità che si trasforma rapidamente in una crisi di solvibilità, giungendo quindi a una crisi che è assieme finanziaria ed economica.
Nella crisi in atto, i riferimenti alla teoria di Minsky si sono moltiplicati. Si può discutere se la crisi abbia seguito esattamente il percorso indicato da tale teoria – Minsky concentrava l’attenzione su una catena di nessi di causa ed effetto che collega il settore finanziario a quello industriale – ma quel che è certo è che la teoria di Minsky fornisce elementi fondamentali per comprendere la situazione e intervenire su di essa: l’idea di una fragilità finanziaria che tende a crescere nei periodi “normali” e che esplode in crisi sempre più violente man mano che in base all’esperienza precedente gli operatori si persuadono che lo Stato interverrà a salvare la situazione; l’idea, quindi, della necessità di una regolamentazione dei mercati finanziari per impedire la crescita continua della fragilità finanziaria; l’idea che la politica economica debba prestare molta attenzione non solo all’andamento del reddito e dell’inflazione ma anche ai prezzi degli asset, come tra gli altri ha sostenuto negli anni precedente la crisi Kindleberger, che ha utilizzato la teoria di Minsky per la sua celebre storia delle crisi.
Per comprendere la situazione in cui ci troviamo dobbiamo tenere conto anche dell’evolversi nel tempo della natura stessa del capitalismo. Al riguardo possiamo fare riferimento a un altro scritto di Minsky, pubblicato nel 1990 nella raccolta di saggi in onore di Paolo Sylos Labini, intitolato “Schumpeter e la finanza” (Minsky, come Sylos, era stato allievo di Schumpeter). In questo lavoro, e prima ancora in alcune conferenze che ho avuto il privilegio di ascoltare negli anni ’80 alla International Summer School for Advanced Economic Studies di Trieste, Hyman ha sottolineato che alle fasi storiche del capitalismo commerciale, di quello finanziario e di quello manageriale è seguita, negli ultimi decenni, quella che ha battezzato la fase del capitalismo dei gestori di fondi finanziari (money manager capitalism). Si tratta di una fase in cui i mercati finanziari dominano l’economia reale: i manager finanziari, che gestiscono stock di ricchezza enormi comprando e vendendo continuamente attività per guadagnare su variazioni di prezzo anche minime, hanno un orizzonte temporale brevissimo.
L’economia manageriale è superata in quanto i manager delle grandi corporations non possono più contare su un potere sostanziale di fronte a una platea di piccoli azionisti, ma debbono fronteggiare operatori finanziari che possono creare (o cedere) pacchetti azionari di dimensioni significative, sufficienti a scalare i consigli di amministrazione. Diversamente dagli imprenditori che guidano un’impresa cercando di fare profitti sulla differenza tra ricavi e costi lungo l’intero arco di vita di un impianto industriale, i manager finanziari puntano a trarre profitti dalla differenza di prezzo di un asset ora e domani, o tra un’ora, o tra pochi minuti. Questo rende l’economia meno efficace sul piano della crescita della produttività o in relazione a problemi di sostenibilità ecologica e sociale data la minore attenzione prestata ai problemi di lungo periodo, più instabile di fronte ai cambiamenti del clima delle opinioni, più difficile da controllare con gli strumenti tradizionali di politica economica. Keynes diceva, nella Teoria generale, che sarebbe stata una situazione ben difficile quella in cui fosse stata la coda della finanza a muovere il cane dell’economia reale; ed è proprio quanto avviene non occasionalmente, ma sistematicamente, nel money manager capitalism descritto da Minsky. Un aspetto del money manager capitalism sottolineato da Minsky concerne le elevate retribuzioni dei manager, che vengono comunemente assimilate a salari mentre dovrebbero essere assimilate ai profitti: non solo per comprendere il tipo di incentivi cui queste retribuzioni danno luogo, ma anche e soprattutto per comprendere meglio l’evoluzione in atto nell’economia, per quanto riguarda l’andamento della distribuzione del reddito ma soprattutto l’evoluzione dei rapporti di potere e della struttura sociale.
Vi sono molti altri elementi utili nella teoria di Minsky sui quali ora non mi è possibile ora soffermarmi, come ad esempio l’importanza che viene attribuita alla distribuzione del reddito, in particolare all’andamento dei profitti e quindi agli elementi che li determinano. Per quest’aspetto Minsky richiama Kalecki, di cui invece critica la teoria monetaria troppo rudimentale. Se teniamo conto di questi elementi, possiamo vedere che quella di Minsky non è una teoria della finanza, ma una concezione generale del funzionamento dell’economia, che include aspetti finanziari e reali nel gioco delle loro interrelazioni. Inoltre possiamo sottolineare che la teoria di Minsky è articolata in modo non rigido, secondo il metodo delle catene causali brevi che Keynes riteneva il più adatto per un mondo in cui a ogni nesso di causa ed effetto non possiamo attribuire il carattere di necessità assoluta.
Di qui la mia convinzione, discussa a lungo con Hyman, che si potesse trovare un ponte tra Keynes e Sraffa – o, più precisamente, tra il Keynes come lo interpretava lui e lo Sraffa come lo interpretavo io, certo non tra il Keynes racchiuso nel breve periodo di Marshall o meglio di Richard Kahn o esteso al lungo periodo alla maniera della scuola di Cambridge di Kaldor, Joan Robinson o Pasinetti e lo Sraffa interpretato alla Garegnani come analisi delle posizioni di lungo periodo. Su questo tema abbiamo discusso parecchio durante le successive riunioni della scuola estiva di Trieste, organizzata da Parrinello con Garegnani e Kregel per raccogliere assieme i rappresentanti dei vari filoni di ricerca non neoclassici. Con Hyman avevamo anche pensato alla possibilità di scrivere un Manifesto keynesian-sraffiano sulle linee che ho appena accennato, ma purtroppo poi non se ne è fatto nulla. I temi aperti riguardavano, per quanto posso ricostruire ora, non la teoria dei mercati finanziari o la teoria del valore, ma la teoria del pricing e della distribuzione del reddito, a partire dal ruolo della nozione di saggio uniforme del profitto al quale Hyman obiettava e dalla nozione di nessi non soltanto ex post ma anche ex ante tra investimenti, profitti, saldo del bilancio pubblico e della bilancia dei pagamenti che a me sembrava e sembra difficile da sostenere.
Quali insegnamenti possiamo trarre dalla teoria di Minsky per la situazione di oggi?
L’insegnamento principale, credo, è che i problemi che abbiamo di fronte non riguardano semplicemente qualche errore nella conduzione della politica economica e la necessità di qualche modifica regolamentare relativamente modesta nel settore delle attività finanziarie. La crisi che abbiamo di fronte non è una semplice crisi da scoppio di una bolla immobiliare, seguita da una seconda crisi dei debiti sovrani e aperta al rischio di successive crisi che potrebbero riguardare le carte di credito o qualche mercato dei derivati e quindi qualche grande banca internazionale. La crisi che abbiamo di fronte ha caratteristiche di base comuni, pur assumendo connotati diversi nelle sue fasi successive: riguarda innanzitutto la fragilità dell’economia finanziarizzata, o come diceva Hyman la fragilità del money manager capitalism. I rimedi dobbiamo trovarli in questo contesto, in riforme istituzionali che ridimensionino il ruolo della finanza a quello di una coda che non sia in grado di far ballare il cane dell’insieme delle attività reali. Non si tratta, certo non solo, di far aumentare la capitalizzazione delle banche sulla base di valutazioni dei rischi condotte utilizzando modelli sofisticati ma con fondamenta assai dubbie, come è nella tradizione delle regole di Basilea. Si tratta piuttosto di riportare sotto controllo tutti i settori della finanza, limitandone le dimensioni e il potere di ricatto insito nel too big to fail.
Varie misure utili a muoversi in questa direzione sono già in discussione, come la Tobin tax sulle transazioni finanziarie, limiti alla dimensione delle istituzioni finanziarie per assicurare che un loro eventuale fallimento non crei problemi sistemici, vincoli ai tipi di operazioni permesse alle istituzioni finanziarie che raccolgono depositi dal pubblico, limiti drastici alla leva finanziaria per tutti gli operatori finanziari. Rinvio al riguardo a un recente lavoro di Elisabetta Montanaro e Mario Tonveronachi, presentato due giorni fa a un convegno organizzato dalla Ford Foundation. Queste misure vanno realizzate in tempi rapidi, se non vogliamo essere travolti da una successione di emergenze.
Hyman, come Sylos Labini, considerava come un impegno civile l’attività di ricerca nel campo dell’economia: un’attività di ricerca che va quindi condotta in modo aperto, tramite la discussione e il confronto, e non cercando di imporre la propria posizione sulle altre tramite la forza del potere politico, come invece purtroppo sta accadendo in questo periodo tramite meccanismi di valutazione della ricerca decisamente non neutrali tra i diversi orientamenti e le diverse aree della ricerca economica.
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