La sua famiglia era numerosa e G. era il quinto di otto figli. A stento imparava a leggere e scrivere ma maneggiava molto bene il denaro, grazie a un intelligenza pratica. “A che mi serve studiare e prendere un diploma? Io imparo a rubbà: gli altri faticano, e poi io me lo rubo.” Il lavoro era inteso come fatica, soggezione, subordinazione, dipendenza e lui non capiva l’altra forma di schiavitù che lo legava a una mentalità basata sulla sopraffazione, sulla legge del più forte e del taglione, sull’illecito. Abiezione, miseria, degrado e ignoranza erano principi fondanti in contesti dove aveva già imparato a sopravvivere ispirandosi, come altri, alle regole dell’ “Osserva, taci, squaglia, schierati per avere lavoro e protezione. Impara a usare presto le armi per una guerra che prima o poi ti coinvolgerà”
A sette anni fumava le sigarette di contrabbando, che si vendevano sfuse per iniziare precocemente i piccoli al vizio del fumo e qualche anno dopo all’eroina in un percorso di distruzione.Alle 8.00 di mattina, sulla banchina della stazione, i ragazzini arrivavano in piccoli gruppi, solidali nelle risa scherzose da cui trapelava l’ entusiasmo e la baldanza dell’ adolescenza, e indossavano i costumi di scena, si truccavano per andare a vendere un po’ di piacere. Altri tornavano dopo una nottata di lavoro, in silenzio e sfatti. A volte in coppia si trascinavano lungo i binari per raccattare quel che rimaneva nelle siringhe vuote e racimolare così una dose, annaspando come farfalle che hanno perso la polverina dalle ali.
Di pomeriggio doveva badare ad un fratellino di due anni insieme ai suoi compagni di strada. Aveva un forte senso di protezione per i più piccoli, affetto per i genitori e i fratelli , generosità e solidarietà tra simili. Talvolta andava con gli amici a raccogliere cani randagi per ottenere in cambio qualche spicciolo. Lo pagavano per quella carne da macello che, molti anni più tardi, si scoprì che serviva all’addestramento dei cani da combattimento. Il sangue è sangue, umano o animale che sia…il cuore non esisteva, il ribrezzo e la paura erano sintomi di fragilità. La sua era stata violata da tempo. Tutto apparteneva al corso naturale delle cose in un contesto infernale. Chi non c’è mai stato, non può capire, non può sopportare la vista di case fatiscenti dove si convive con i ratti e dove la speranza vive in una fede popolare e superstiziosa che conforta, rassicura e dà la forza di andare avanti e sopravvivere.
Spesso G. non andava a scuola. Un giorno, a lezioni iniziate, vi entrò di nascosto da una finestrella del bagno per prendere il biglietto che aveva colorato per la Festa della Mamma. Un regalo che poteva fare anche lui, che non ne riceveva mai, a una donna di 36 anni che ne dimostrava il doppio negli occhi spenti, nel fisico fiacco e trascurato, proprio di chi è provato da stenti e dalla fatica di barcamenarsi per crescere tanti figli.
“Qui per cambiare le cose i bambini andrebbero tolti alle famiglie appena nati o soffocati nella culla in tenera età.”: parole sferzanti e ciniche di chi s’adoprava ogni giorno in un contesto ingestibile con l’amara consapevolezza che il terzo e quarto mondo non era fuori dall’Europa, ma anche in Italia. Per lungo tempo si è finto di non vedere, di non sapere finchè la devianza giovanile non è scoppiata come emergenza sociale. “Si ammazzino tra loro, è una selezione naturale, “civilmente” conveniente , per noi e non per loro. Arginiamoli e chiudiamoli nei loro ghetti sempre più deprivati dove sono radicati e che dà loro un senso di appartenenza.” Come le tradizioni popolari, le processioni e i gran pavesi variopinti di panni stesi tra i balconi.
In quei rioni riecheggiano canti e grida, sfrecciano motorini , passeggiano ragazzine con occhi di donna e i bambini giocano con ciò che trovano. Lì però i sogni e la fantasia emergono ancora ascoltando fiabe narrate dalla maestra , il canto serve ad esprimere il proprio talento e libera dal male, la scuola aiuta a recuperare e a riconoscere l’identità di bambino.
In quel contesto e in poco tempo, con un impatto traumatico in una realtà che si pensa lontana, si impara più che in tanti anni di formazione ed esperienza professionale pur bestemmiando contro Dio, la latitanza e l’ indifferenza delle istituzioni, la mala sorte, e si apprezzano quei privilegi a noi concessi da una sorte benevola. La vita porta altrove e a distanza di tanti anni resta forte il ricordo di G. , diventato adulto troppo presto. Di un bambino come lui aveva scritto anni prima Giancarlo Siani, che non dimentico, come non dimentico certe esperienze che hanno lasciato una sorta di imprinting dentro.
Oggi le cose stanno cambiando e c’è molta più consapevolezza ed attenzione a riguardo delle violazioni dell’infanzia. Per altri bambini e ragazzi si può fare qualcosa nel proprio piccolo raggio d’azione, prevenire il disagio per evitare la dispersione scolastica, far sentire una voce diversa, trasmettere non solo conoscenze ma anche affetto, valori e modelli positivi, incanalare l’intelligenza dei ragazzi a rischio di devianza creando e sostenendo alternative di vita, e soprattutto impedire e reprimere ogni forma di sfruttamento. È un obbligo morale rivendicare e garantire l’infanzia che non deve essere negata sia perché è riconosciuto il diritto di non perderla mai, sia perché non potrà più essere recuperata.
Questo post è per la Giornata Mondiale dei diritti dell’Infanzia e per ricordare Marcello D’Orta, maestro di scuola e di vita , autore di tanti libri tra i quali l’indimenticabile e famoso “Speriamo che me la cavo” che ha narrato con intelligente ironia e affettuosa malinconia la contraddittoria napoletanità, l’emarginazione e la miseria ma soprattutto i sogni, le speranze e l’arte di arrangiarsi i dei più piccoli in una quotidianità difficile, se non impossibile da capire e tanto più da vivere, esorcizzata dalla vitalità dei bambini. Nell’umanità degli scugnizzi e dei bambini di Arzano ho rivisto i miei primi alunni, bambini di quartieri difficili della provincia di Napoli dove ho iniziato a lavorare e ho capito che la mia strada sarebbe stata l’insegnamento.
“La mia casa è tutta sgarrupata, i soffitti sono sgarrupati, i mobili sono sgarrupati, le sedie sgarrupate, il pavimento sgarrupato, i muri sgarrupati, il bagnio sgarrupato. Però ci viviamo lo stesso, perché è casa mia, e soldi non cene stanno. Mia madre dice che il Terzo Mondo non tiene neanche la casa sgarrupata, e perciò non ci dobbiamo lagniare: il Terzo Mondo è molto più terzo di noi!
(Da “Speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani” di Marcello D’Orta)
“Quale parabola preferisci?” Svolgimento. Io, la parabola che preferisco è la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. Dio separerà le capre dai pastori, una a destra e una a sinistra. Al centro quelli che andranno in purgatorio, saranno più di mille migliardi! Più dei cinesi! E Dio avrà tre porte: una grandissima, che è l’inferno; una media, che è il purgatorio; e una strettissima, che è il paradiso. Poi Dio dirà: “Fate silenzio tutti quanti!”. E poi li dividerà. A uno qua e a un altro là. Qualcuno che vuole fare il furbo vuole mettersi di qua, ma Dio lo vede e gli dice: “Uè, addò vai!”. Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà, Corzano si farà in mille pezzi, i buoni rideranno e i cattivi piangeranno. Quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle. Io, speriamo che me la cavo. »
(Dal film “Speriamo che me la cavo” –regia Lina Wertmüller)
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