Nel 1910 un Regio Decreto costituisce una commissione con l'intento di studiare la possibilità di creare in tutti i Comuni del Regno un Corpo di Pompieri, ma è solo nel 1928 che viene varata la legge in cui si fissa l'obbligo, per i Comuni con popolazione superiore a 40 mila abitanti, di dotarsi di propri corpi di civici pompieri, mentre nel 1935 viene sancita la necessità di creare un Corpo Nazionale Pompieri, con la emanazione del Regio Decreto 2472 del 10 ottobre di quell’anno. Il Regio Decreto n 1021/38 cambia la denominazione storica di Pompieri che diventano finalmente “Vigili del Fuoco"; infine la legge 33 del 27 febbraio 1939 suggella la vera data di nascita del Corpo Nazionale, grazie agli sforzi sovrumani del Prefetto Alberto Giombini, che dal 1935 al 1939 organizza la costruzione di nuove caserme e strutture, crea un moderno parco automezzi ristrutturando e acquistando autopompe, autoscale e mezzi navali, omologandone gli standard costruttivi con criteri di uniformità e intercambiabilità, e predispone a tutti i livelli la formazione del personale, che da Sondrio a Taranto deve essere in grado di ricevere lo stesso addestramento con i medesimi criteri operativi. Ciò consentì al neonato Corpo Nazionale di affrontare l’urto tremendo del secondo conflitto mondiale, oltre che con l’innato coraggio e abnegazione, anche con un supporto tecnico ed organizzativo tale da consentirgli di profondere i suoi sforzi con prontezza e agile risposta operativa.
I pompieri comunali possedevano un campionario di elmetti quanto mai variegato, in buona sostanza tuttavia ascrivibile a quattro tipologie principali, i modelli Roma, Firenze, Bologna e Milano, quest’ultimo maggiormente diffuso, e descritto in un post che si trova nella sezione dei caschi italiani. Nel 1938 viene messo in produzione presso gli opifici militari un casco, il Nazionale appunto, destinato ad equipaggiare i Vigili del Fuoco. Questo viene ottenuto attraverso un particolare trattamento del cuoio, tutto rigorosamente autarchico, in forma di cornucopia rovesciata, con crestino in ottone, ed applicazione frontale del neocostituito simbolo nazionale, anch’esso in ottone, raffigurante una granata fiammeggiante con giustapposte asce incrociate ed iscrizione nel tondo del numero del Comando di appartenenza; l’interno è in cuoio come il soggolo, e vi sono due aeratori in bachelite sui fianchi. Il colore è nero, almeno negli anni fino al 1940; allo scoppio delle ostilità i caschi del Corpo vengono dipinti in grigioverde militare, e visto il massiccio richiamo di forze a cui fa da contrappunto la scarsa capacità produttiva vengono riesumati dai magazzini elmetti di diversi tipi, aggiungendo ai nazionali 38 in circolazione caschi di generazione precedente, in primis i modelli “Milano” e consimili, poi gli Adrian della prima guerra mondiale (nella foto in basso: intervento di spegnimento e messa in sicurezza di un fabbricato rurale a Buttigliera d'Asti; si notano i caschi Nazionale 38 e gli Adrian versione VV.F.), oltre ai modelli 1933 metallici di derivazione militare, principalmente in dotazione ai membri dell’U.N.P.A. (acronimo di Unione Nazionale Protezione Antiaerea) che svolgevano anche compiti di soccorso e supporto antincendio; in questo caso il casco veniva forato in fronte per sottolinearne la non appartenenza ad un militare combattente. Per tutti il colore era il classico grigioverde militare, mentre il fregio frontale in periodo bellico è talvolta in alluminio autarchico senza riferimento numerico.
Nella collezione ho la fortuna di possedere entrambe le declinazioni di questo prezioso elmo, nelle due varianti di colore sopra descritte; uno, quello nero delle prime tre immagini, porta il fregio del Comando di Pavia, contraddistinto dal numero 60, il cui motto è “Per ignem virtus fulgit”, che significa "Attraverso il fuoco riluce il valore"; il secondo in grigioverde ha la fiamma del Comando di Sondrio, con il numero 80 ed il motto “Usque ad mortem audebo”, tradotto in “Oserò fino alla morte”. Si presentano entrambi in ottime condizioni, riportati agli onori del mondo dopo accurati restauri; il principale problema di questo tipo di caschi è quello della scarsa qualità del materiale con cui erano realizzati, che li rende estremamente rari e di ardua reperibilità, anche visto l’uso intensivo che subivano. Negli anni ’50 i superstiti sono stati gradatamente sostituiti dai Violini, in resina, e poi dai Pirelli in plastica. Restano tuttavia impressi nel materiale documentaristico di guerra, in testa ai pompieri intenti a spegnere le fiamme generate degli spezzoni incendiari, o a scavare tra rovine di case abbattute, o a mettere in sicurezza strutture pericolanti, a portare insomma la loro abituale, silenziosa, quotidianamente eroica opera di salvataggio e soccorso, perché “un giorno senza rischi è non vissuto”.
P.S.: ringrazio per il sostegno, le informazioni il C.S. Claudio e il solito, eccelso Alessandro Mella, il cui sito è citato tra i link amici e va visitato per la completezza e la ricchezza; insostituibile il libro di Michele Sforza, "La città sotto il fuoco della guerra" ed. Allemandi, purtroppo fuori stampa e da tempo esaurito, vera miniera di informazioni. Da lì è tratta la foto in BN sopra citata, e ringrazio Michele per averne autorizzato la pubblicazione.