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I cavalieri che fecero l’impresa – di Pupi Avati (2001)

Creato il 31 ottobre 2011 da Senziaguarna

I cavalieri che fecero l’impresa – di Pupi Avati (2001)

Che il risultato del trasferimento su pellicola di un romanzo sia inferiore al modello letterario lo sanno anche i sassi. Sembra che a questa regola non si scappi, nemmeno quando il creatore della pagina scritta e quello del fotogramma sono la stessa persona.
È il caso di Pupi Avati, che nel 2000 pensò bene di portare sullo schermo il romanzo scritto con Franco Cardini I Cavalieri che fecero l’Impresa.
Un romanzo cavalleresco, ispirato ai capolavori dei secoli XII e XIII che ruotavano intorno a una Ricerca, prima fra tutti quella del Graal. Ed effettivamente con il sangue di Cristo ha a che fare la reliquia nella cui caccia sono impegnati i cinque cavalieri protagonisti; ma non si tratta del calice che avrebbe raccolto il sangue del costato, bensì del lenzuolo che quel sangue ha assorbito, la Sindone. C’è persino un Re Artù dalla cui volontà inizia tutto: il Santo Re di Francia, Luigi IX, il cui ultimo desiderio sul letto di morte è che la Reliquia per eccellenza venga trovata perché possa guarire la sua terra dilaniata dalle eresie.
Avati lo sa bene: un romanzo cavalleresco degno di questo nome è anzitutto un romanzo di formazione. I cinque cavalieri impegnati nella ricerca contano un Inglese e un Francese poco più che ragazzini, due Italiani poco più che tagliagole, e un fabbro-scudiero indemoniato. Ma, diceva un proverbio medievale, “Nessuno nasce cavaliere”. Il viaggio alla ricerca della Sindone che porterà i cinque protagonisti sempre più nel Mistero, attraverso una serie di incontri e di prove, li plasmerà sempre più come cavalieri. Il loro incontro con la Sindone diventa così l’incontro con l’Assoluto fattosi sudore e sangue.
Nel film tutto questo si vede, ma la pellicola perde molto rispetto alla pagina scritta.
Anzitutto, Avati avrebbe potuto risparmiarci i primi piani di sventramenti e teste tagliate che in alcuni punti risultano semplicemente insostenibili. Poi, il racconto del romanzo è ricchissimo di simboli, di parole pregne di significato, di oggetti dal valore mistico, come la sciarpa donata a uno dei cavalieri da una vergine grazie alla quale potranno raggiungere la Sindone. Per brevità, il film deve tagliare, e così alcune situazioni vengono come lasciate a metà dando a volte l’impressione di qualcosa senza capo né coda.
Si apprezza comunque la fedeltà storica quasi maniacale del regista: qualcuno ha definito questo film “medievista più che medievale”. Ma si apprezza ancora di più il cast eterogeneo ma affiatato, compreso un sorprendente Raoul Bova che sembra muoversi bene nei panni di un personaggio così complesso e sfaccettato come Giacomo, il fabbro indemoniato.
Il film non si può capire fino in fondo se non in questa scena, intensa e commovente. La fine del percorso dei cinque protagonisti con il sacrificio della vita, senz’altra ricompensa se non l’amicizia che ormai li unisce. Amore gratuito, follia gioiosa, che può avere solo una ragione: i cavalieri hanno visto il Mistero, e ormai sanno che non esiste sangue sparso invano.



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