Il fatto è che Antrim disdegna il naturalismo e, per certi versi, anche la realtà: la sua è una storia che sotto la forma di un divertissement o di quello che potrei definire “un erudito stupidario”, ci schianta contro la tragedia di essere nati. Doug, la voce narrante, come del resto tutta la vicenda, sono quasi del tutto scollegati dalla dimensione spazio-temporale. Tutto quel che sappiamo è che ci si trova in una biblioteca mastodontica, per un settore della quale Antrim dice: «Serpeggia una certa depravazione sifilitica tra questi ex libris all'acquaforte aventi per protagonisti catarrosi aristocratici che si accoppiano alla pecorina senza togliersi il cappello». Il soffitto è irrimediabilmente crepato; è sera, e si lascia intendere che, con l'avanzare del buio, gli eventi, in un qualche modo insondabile, precipiteranno; oltre le finestre esseri non meglio definiti, forse umani, «che si stringono gli uni agli altri per riscaldarsi».
Questi ammassi di carne e ossa, che Antrim fa danzare tristemente sul suo palcoscenico instabile, sono uomini sorridenti sull'orlo di un baratro profondissimo, tanto che Doug può affermare: «ho notato che in me sortisce un effetto rilassante, di quando in quando, produrmi in un gesto di degradazione, entrando così davvero in contatto con il sentimento della solitudine e della vergogna».
La narrazione alterna slanci di rappresentazione vitalistica a chiusure intimistiche, la maggior parte delle volte a sfondo ossessivo/depressivo. E, in questo quadro meravigliosamente desolante, privo di consolazioni, fatto da odori d'uomini, litigi istantanei, alleanze, aggressioni fisiche e abbracci, inseguimenti, umiliazioni, intimidazioni, la prerogativa di I cento fratelli, come dice Franzen nell'Introduzione, «deriva dalla sua volontà di abbracciare, e perfino celebrare, una cupa realtà di fatto: che la vita dell'individuo consiste, in definitiva, in una corsa sempre più veloce verso il decadimento e la morte». Se il romanzo inizia con una tassonomia, termina, infatti, con l'espressione della condizione di solitudine di noi tutti, nella fine.
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