Cau-cau in dialetto mapuche era il nome onomatopeico di un grosso gabbiano, lin invece significava Collina. I Mapuche erano gli abitanti originari del Cile prima dell’arrivo degli europei e noi quel giorno di un agosto ormai lontano arrivammo alla collina dei grossi gabbiani. Partendo da Castro e salendo verso nord percorremmo un lungo tratto di strada sterrata e attraversammo una grande spiaggia che era stata scoperta da una bassa marea eccezionale che proprio in quei giorni fu di oltre un metro. Fu così che arrivammo nel villaggio incantato di Caulìn, un paese piccolo quasi completamente dimenticato da Dio e completamente dimenticato dagli uomini, dove vivevano i cigni dal collo nero e i pochi abitanti erano laggù da sempre, a pescare ostriche e bere acqua delle sorgenti.
Su un bel viale lungomare completamente deserto, perfettamente conservato come doveva essere un lungomare dieci, cinquanta o cento anni fa sorgeva l’allevamento di ostriche Ostras Caulin. Un cartello dipinto a mano davanti al ristorante sulla spiaggia “abierto todo el dias del ano en horario de luz diurna”. Di notte come per magia il ristorante e l'allevamento scomparivano, gli abitanti tornavano a dormire nelle loro tombe e tutto il paese - come un grosso nido - rimaneva popolato solo dai maestosi cigni dal collo nero.
Ma noi arrivammo di giorno. E pranzammo meravigliosamente con delle meravigliose ostriche fresche che ci vennero cucinate come antipasto, primo, secondo e anche come dolce. Don Ramon Molina, il proprietario, era un anziano e distinto signore alto, pallido e allampanato la cui principale caratteristica fisica erano due orecchie grandi quanto le mie mani che gli bordavano praticamente tutto il viso. Chiaramente un gentiluomo d'altri tempi, con noi gioviale e loquace ma mentre parlava io non potevo fare a meno di notare come i lobi delle orecchie fossero visibilmente consumati e, per quanto quel mattino si fosse sfrorzato di nasconderlo con della cipria o del cerone, il suo viso sembrava un pochino putrefatto.
Don Ramon portò sul tavolo un enorme libro, incrostato e polveroso e quando lo aprì... uscì improvvisamente, chiassosa e colorata come dei fuochi d'artificio, tutta la ricchezza delle leggende di Chiloè. E così facemmo conoscenza con il Trauco, una sorta di gnomo cattivo che se ne andava in giro a violentare tutte le donne che incontrava da sole nei boschi dell'isola, tanto che si diceva che l'intera Chiloè fosse popolata da parecchi figli del Trauco. Per quanto ai più razionali tra noi rimase il dubbio che fosse più che altro un elaborato diversivo per coprire scappatelle extra coniugali andate un po' oltre il limite, dobbiamo ammettere che il Trauco effettivamente sprizzava energia sessuale da tutti i pori e tenerlo fermo ci creava non poche difficoltà; non fosse stato per Mangiafuoco e l'Orangutan non potrei garantire che la contorsionista e - se tanto mi da tanto - pure la Donna Barbuta e la Donna Cannone ne sarebbero uscite indenni quel pomeriggio.
Poi don Ramòn ci presentò la Pincoya, una dea che viveva tra le onde e propiziava la pesca una bella signora ormai un po' attempata in uno strano, con la pelle raggrinzita da soggiorni troppo lunghi nell'acqua e un abito che in origine doveva essere stato bianco e che oggi era grigio, verde e parecchio strappato. Dalla finestra potemmo osservare tutti il Caleuche, con le sue vele strappate e le ombre dei marinai fatti di nebbia ma nessuno si azzardò a uscire, che don Ramon ci aveva già spiegato bene che il vascello fantasma rendeva pazzi quelli che cercavano di raggiungerlo.
Ci parve persìno di vedere - ma qui penso fosse veramente solo un disegno su una vecchia pagina - Tentenvilu e Caucauvilu, i due giganteschi serpenti del bene e del male che diedero vita al mondo e che pare stiano ancora lottando in qualche remoto angolo dell'oceano per l'eternità.
E piano piano, uno per volta, nella stanza di quel ristorante alla fine del mondo arrivarono tutti gli altri, tutti i mille fantastici personaggi della mitologia di Chiloè.
Don Ramon ci rivelò che lui laggiù rappresentava tutti gli uomini del mondo: i Molina, i Molinari, i Molnar, i Miller, i Mueller e tutti i milioni di mugnai che sono esistiti fin dall'inizio della civiltà. Ci raccontò che Chiloè derivava da Chille (Gabbiano) e Hué, desinenza che indicava un luogo, quindi il Posto dei Gabbiani. Che gli spagnoli che la conquistarono la vollero ribattezzare Nueva Galizia ma gli abitanti dell'isola - sia quelli in carne e ossa che quelli in carta e leggenda - orgogliosi e indipendenti mantennero la loro lingua e i loro nomi. Che la parola Mapuche che designava le tribù degli indios patagonici significava Mapu (Terra) e Che (Persona), quindi le Persone della Terra. E che non era un caso se questa terra lunga e stretta ein fondo all'America, schiacciata tra le nevi delle Ande e le onde dell'Oceano aveva dato vita ai iù grandi poeti e scrittori del nostro secolo: da Pablo Neruda a Isabel Allende, da Gabriela Mistràl a Luis Sepulveda e su tutti aveva dato vita a don Francisco Coloane da Quemchi, sull'Isla Grande di Chiloè.
Fuggimmo da Caulin prima che venisse sera, prima che la marea coprisse di nuovo la spiaggia segreta e nascondesse chissà per quanti anni ancora quel paese incantato al resto del mondo. Continuammo verso nord diretti ad Ancud dove arrivammo nel tardo pomeriggio e ci sistemammo all’Hotel Balai, un posto niente di che ma con un grande giardino sul retro per lasciarci liberi gli animali. Piantammo il nostro tendone nella piazza principale del paese e poi ci concedemmo giusto un pisolino, per riprenderci dalle emozioni di Caulin e onestamente anche dalle bandurrie dell’Unicorno Azul dei giorni precedenti. Ci rimettemmo tutti in piedi giusto per cena, dove come al solito eravamo gli unici clienti e prendemmo l'unico piatto che offriva il menù dell'unico ristorante aperto fuori stagione.
Quella notte piovve a dirotto e mi venne da pensare a don Ramon e agli altri abitanti di Caulìn che dormivano all'aperto sotto terra vicino alla chiesetta diroccata. Ci sembrava persino di sentirne tutto il freddo, l'umido e la pioggia intorno a noi. Fino a quando ci svegliammo e ci accorgemmo che in effetti stava piovendo da tempo nella camera. Alla reception non parvero farsene un grande problema: salirono, spostano i letti e piazzarono per terra una collezione di vasi, catini, vecchi stracci e asciugamani.
Il mattino dopo, alle nove le due grosse casse acustiche piazzate di fianco al tendone nel giardino del Centro Cultural Municipal spararono a tutto volume “Vagabundo” e altri pezzi di Nicola di Bari in versione spagnola e annunciarono un doppio spettacolo: mattutino e pomeridiano. Facemmo buoni affari e il giorno dopo ci dispiacque dover smontare tutto ma ormai il volo era prenotato quindi caricammo baracca e burattini, pagliacci orchestrali, spingemmo gli elefanti e il cammello sul camioncino e ci preparammo a lasciare Chiloè.
Al traghetto c'erano tutti: contadini e pescatori, commissari e sagrestani. Pinguini e leoni marini vennero a salutare il cammello e gli elefanti e alla fine la barca si staccò lentamente dal porto. L’unica città che non riuscimmo a toccare nella nostra tournèe fu proprio Quemchi, il paese natale di Francisco Coloane. Ma non importa: quella settimana a Chiloè fu magica lo stesso.