Bisogna tornare indietro nel tempo per seguire il lungo filo rosso che ci porta ai grigiori di oggi, alla perdita di significato di progresso, di classe e persino di azione sociale che oggi sembra quasi un’astrazione e prende vigore solo attorno ad alcuni problemi che smuovono i nostri io “desideranti”. Bisogna tornare ai primi anni ’70, a Deleuze che tematizza il lato ancora ideologicamente in ombra del ’68, il suo cuore pulsante, ma in qualche modo anche il suo cuore di tenebra: la polemica contro il potere di ogni tipo che cerca di reprimere gli uomini visti come macchine desideranti. E qualche anno dopo in quel ’77 funesto e bizzarro insieme, uscì La barbarie del volto umano che presenta il capitalismo e il comunismo come nemici -sullo stesso piano – del desiderio. Vi compare per la prima volta l’espressione « l’idée réactionnaire du progrès » che sebbene avesse dei significati diversi rispetto a quelli che potremmo attribuire oggi, sedimenta un frasario che diventerà poi automatico.
Questi pensieri, aghi di un sismografo intellettuale, non vedono che trasformando gli uomini da macchine politiche a macchine desideranti, scavano un solco col pensiero precedente che appunto cercava di collegare i desideri materiali o immateriali che fossero, dentro un disegno globale di società, quale che esso fosse. Adesso invece l’insieme diventa una somma aritmetica che prescinde dall’interesse generale e non opera più distinzioni fra aspirazioni e bisogni. Il capitalismo è stato lesto ad appropriarsi di questa mentalità emergente e a sfruttarne le potenzialità: la somma aritmetica o algebrica che funziona come il mercato, perde via via il senso dell’idea di progresso e di trasformazione, è miope o cieco verso l’insieme, non progetta, ma si appaga di un piano di discorso immutabile, di una realtà data e immutabile. La dissoluzione dell’Urss trasformò queste tentazioni in realtà: ed ecco che il capitalismo, la finanza, i loro presupposti e i loro desideri d’azione divennero l’unico piano di gioco possibile , anche quello della politica, dove la forma non media più la sostanza, non la costruisce e diventa rito, agisce per reazione e non prende iniziative. Diventa essa stessa semplice “tecnica”.
Oggi tutto questo comincia ad apparire più chiaro, ma cambiare dentro di sé le stratificazioni del pensiero unico è ancor più difficile che mettere in piedi una politica che lo contesti alla radice: così abbiamo il frazionismo infinito dove il sogno di una società diversa si fa desiderio più che progetto. Di qui l’egoismo ideologico che vediamo anche in questi giorni decisivi di nascita di una nuova sinistra, la necessità di ascoltare ogni singolo desiderante, correlato agli altri non come un insieme, ma come parte singola, abbiamo sussurri e grida dentro movimenti che diversamente dalla forma partito non hanno catene di trasmissione tra un vertice e una base amplissima. Abbiamo primarie dove si decide delle facce, ma non delle politiche da mettere in campo che anzi sono già decise e vanno sottoscritte prima di mettere la scheda dell’urna.
Chi sono dunque i conservatori? Quelli che evidentemente non si sono del tutto fatti afferrare dal meccanismo, che appartengono alla vecchia era della politica o l’hanno riscoperta, che hanno conservato lucidità. Quelli che non credono alla tecnica che è solo l’inconscio delle tesi politiche e nemmeno alle società in qualche modo liquide. Gli irriducibili che non si lasciano piegare ad essere semplici desideranti e che vedono il tramonto del pensiero unico per sua intima inconsistenza. Che non sono banali come i “moderni” che stanno fallendo.