I dialoghi realisti e l’horror vacui del lettore

Creato il 16 aprile 2013 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Sto lavorando su un paio di romanzi di prossima pubblicazione. Molto belli, a mio avviso, oltre che pertinenti alla nostra linea editoriale. Romanzi che, pur avendo nella trama elementi di fiction molto forti (e persino sorprendenti), si caratterizzano nella narrazione per l’acuta osservazione della realtà e la capacità di trasporla, in forma letteraria, in modo molto fedele.
Anche i dialoghi, che rappresentano in entrambe le opere un aspetto importante, si distinguono per il realismo estremo, per una resa assolutamente credibile della conversazione tra i soggetti che, di volta in volta, ne sono protagonisti, coi loro linguaggi, i loro caratteri, le loro modalità espressive. In questi romanzi, dunque, anche i dialoghi rientrano di certo tra gli elementi decisivi che, in fase di selezione, mi hanno convinto della bontà degli autori e mi hanno spinto a sceglierli per la pubblicazione con la nostra casa editrice. Eppure, per quanto di primo acchito li abbia letti con estremo piacere, lavorandoci sopra mi rendo conto che, in questi dialoghi, qualcosa non funziona e, senza nulla stravolgere e senza perdere quelli che sono i punti di forza, è necessario un robusto lavoro di perfezionamento.
Ricordo che già un po’ di tempo fa, in questo blog, discutemmo insieme del realismo dei dialoghi e della mediazione dell’autore, ricorrendo anche a esempi di opere storiche della letteratura italiana. Quella discussione riguardava essenzialmente le scelte lessicali, l’appropriato uso di un determinato linguaggio messo in bocca al personaggio. Chi ha memoria di quel dibattito, sa che io propendo per la forma realistica del dialogo e per un basso livello di mediazione dell’autore, privilegiando la cura di non far pronunciare a un attore frasi che, per struttura e termini, risultino in contrasto con la sua storia, la sua cultura, il suo carattere. Da questo punto di vista, come accennavo sopra, i romanzi su cui sto lavorando incontrano perfettamente il mio gusto, e infatti non è questo l’aspetto che ora mi lascia perplesso.
Il fatto è che l’estremo realismo, oltre che nel lessico, si esprime qui (come in altre occasioni, anche in libri che abbiamo già pubblicato) anche attraverso una ritmica che tende a riprodurre la conversazione reale, fatta di molte pause, brevi battute, frasi interlocutorie. In qualche caso la lettura ne risulta un po’ appesantita, perché si tarda ad arrivare al punto; nell’insieme, però, anche questo tipo di scelta potrebbe in apparenza funzionare, se non fosse che produce un effetto collaterale dalle conseguenze sgradevoli.
Provo, per spiegare di che cosa si tratta, a inventarmi di sana pianta un dialogo costruito secondo le modalità cui sopra facevo riferimento, cercando di essere fedele al modello e non caricaturale.

Anita stava rifacendo il letto. Sentì la porta d’ingresso aprirsi.
«Luciano, sei tu?»
«Sì».
«Che succede? Perché sei tornato?»
«Ho dimenticato una cosa».
«Cosa?»
«Le chiavi di casa dei miei».
«Ah!»
Lui entrò in camera, frugò nel cassetto del comodino e afferrò il mazzo che cercava.
«Ma che, vai da loro?» chiese lei.
«Sì, pensavo di sì».
«Ah! Non me l’avevi detto».
«Eh, me ne sono dimenticato».
«Minchia. Quindi torni tardi?»
«No. Forse un po’».
«Un po’ quanto?»
«Eh, un poco più tardi del solito».
«Tipo?»
«Tipo verso le otto, credo».
«Ah! Guarda che alle nove arrivano Franca e Paolo».
«Cazzo, è vero!».
«Ti eri scordato anche quello?»
«Eh…»
«Minchia, ma sei davvero rincoglionito».
«Grazie».
«L’età ce l’hai» rise lei.
Lui si strinse nelle spalle.
«Vabbé, se vai da tuoi salutameli».
«Ok. Potresti passare anche tu…»
Stavolta si strinse lei nelle spalle.
«Già io non ci vado spesso…»
«Appunto. E sono i tuoi!»
«Per quello volevo passare oggi».
«Sì, ho capito. Va bene».
Si scambiarono di nuovo un bacio veloce.
«Ma non fare tardi» disse lei.
«Va bene».
Lui uscì quasi di corsa per le scale.
Lei si appostò alla finestra. Lo vide passare.
«Ciao, Alzheimer» lo salutò gridando.
Lui agitò la mano. Poi corse verso l’autobus che stava arrivando.

Il dialogo, buttato giù un po’ di corsa, è esemplificativo. Certo, ci dice qualcosa sui personaggi, sulla rispettiva età, sui loro rapporti e sui caratteri, anche se è messo qui nel nulla, senza un contesto di contorno. Quindi, per certi versi, può apparire efficace. Può risultare lento alla lettura, ma può anche essere gradevole, e di sicuro è realistico. Dove sta il problema?
Provate a immaginare questo tipo di dialogo ripetuto parecchie volte in un libro. Sempre battute brevi (anche più brevi di quelle dell’esempio), per una o più pagine intere. Poi riprende la narrazione dei fatti, ma presto entra un altro dialogo, con identiche caratteristiche. E via di seguito.
Se anche, come da premessa, dal punto di vista narrativo e strutturale tutti questi dialoghi risultassero ben collocati e ben esplicitati, salta all’occhio che, una volta impaginato il testo del romanzo, avremmo molte pagine in cui le righe non sono che brevi frammenti di poche lettere, con accanto un preponderante spazio bianco.
E qui, appunto, credo stia il problema. Razionalmente o meno, il lettore, per quanto ho verificato, tende a essere preda dell’horror vacui, in casi come questo. Ho visto, ai banchetti delle fiere, potenziali lettori avvicinarsi ai libri, prenderli in mano e sfogliarli: al netto delle altre considerazioni (che ovviamente ci sono), a parità di interesse per il tema e la trama, il lettore tende a scartare quel romanzo che presenta pagine per lo più bianche e con lunghi dialoghi smozzicati, privilegiando quello che si propone con un testo compatto, fitto e continuo.
Naturalmente, chi fa il nostro lavoro sa benissimo come operare, in fase di editing, per ridurre l’impatto visivo di questi dialoghi senza togliere nulla alla loro efficacia e naturalezza, ma dando un po più di corpo (anche e soprattutto estetico) allo scambio di battute e al suo contorno.
Ma, lavorandoci sopra, mi ha incuriosito la constatazione di come questo tipo di dialogo, anche quando di per sé valido ed efficace, possa spaventare il lettore e indurlo a passare oltre.
O no?


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