I dispositivi di contrasto e prevenzione del terrorismo in Tunisia

Creato il 15 ottobre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Lorenzo Marinone

Gli attentati al museo del Bardo (18 marzo) e al resort di el-Kantaoui vicino a Sousse (26 giugno) hanno riportato ai primi posti dell’agenda politica tunisina la minaccia terroristica. Il fenomeno è tutt’altro che nuovo, benché negli ultimi anni gli obiettivi e le strategie siano mutati [1]. Infatti, dopo la rivoluzione del gennaio 2011 che ha costretto all’esilio il Presidente Zine El-Abidine Ben Ali, la delicata fase di ricostruzione delle istituzioni nazionali è stata costellata da frequenti imboscate contro l’esercito e le forze dell’ordine, concentrate soprattutto nelle regioni montuose dell’ovest (el-Kef, Kasserine e area dei Monti Chaambi). Queste azioni rispondono ad una logica prettamente difensiva, con cui le cellule terroristiche puntano ad assicurarsi spazi di manovra lungo il confine con l’Algeria, ma raggiungono anche lo scopo di tenere sotto pressione l’apparato di sicurezza statale. Il primo salto di qualità è avvenuto tra febbraio e luglio 2013, ossia durante la crisi di governo apertasi a seguito degli omicidi di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, esponenti del Fronte Popolare. Benché le inchieste non abbiano finora portato a una verità giudiziaria chiara, soprattutto in merito ai presunti mandanti politici, sembra che gli esecutori materiali dei due attentati vadano individuati in estremisti salafiti all’epoca legati ad Ansar al-Sharia in Tunisia e successivamente confluiti in formazioni jihadiste in Tunisia, Libia e Siria. Prendendo a bersaglio rappresentanti politici, l’obiettivo principale di tali gruppi salafiti era minare il già faticoso svolgimento della fase costituente, conclusasi poi nel gennaio 2014 con l’adozione della nuova Carta costituzionale. Nel frattempo i sospetti si sono concentrati anche sul principale partito islamista al Governo, Ennahda, accusato di aver usato in modo strumentale le formazioni salafite. Ciò ha acuito  la polarizzazione della scena politica, dando nuovo vigore al blocco di opposizione di Nidaa Tounès e incrinando la tenuta sia della coalizione di Governo (composta da Ennahda, Ettakatol e il Congresso per la Repubblica) sia dello stesso Ennahda, al cui interno convivono storicamente anime molto distanti fra loro. Ciò nonostante, in seguito alle elezioni tenute alla fine del 2014 Nidaa Tounès e Ennahda hanno saputo formare un Governo di coalizione per garantire una maggiore spinta alle necessarie riforme, soprattutto in campo economico e sociale. I recenti attentati hanno preso di mira proprio questi sforzi attaccando un settore fondamentale per l’economia tunisina, quello del turismo, che vale il 7% del PIL oltre a coprire più della metà del deficit commerciale e dare lavoro al 12% della popolazione attiva.

Pochi giorni dopo l’attentato di Sousse, il Premier Habib Essid ha dichiarato lo stato di emergenza e ha annunciato una serie di misure ad hoc: la costruzione di un muro lungo parte del confine con la Libia, l’accelerazione sulla nuova legge anti-terrorismo (approvata a fine luglio), maggiore controllo dello Stato sulle moschee. Tuttavia, tali misure presentano alcune criticità evidenti: il muro blinda il valico di Ras Jedir, ma non impedisce i traffici attraverso il segmento più meridionale, in prossimità di un importante snodo come quello della libica Ghadames, dove transitano le rotte di smuggling e di traffico di migranti che collegano la regione del Sahel con Algeria (via Tamanrasset), Tunisia e Libia (in alternativa alla rotta – sempre più controllata dalla missione francese Barkhane – che attraverso il passo del Salvador e il Fezzan conduce all’area di Tripoli). Il provvedimento anti-terrorismo contiene una definizione piuttosto vaga di atto di terrorismo, tale da poter essere estesa anche a manifestazioni di piazza, oltre a inserire misure di forte impatto mediatico ma di dubbia efficacia pratica: reintroduce la pena di morte e porta a 15 giorni il periodo di stato di fermo dei sospetti senza che venga formulata un’accusa specifica. Ciò ha sollevato pesanti critiche da parte della società civile, che finora si è sempre rivelata essenziale nel processo di transizione politica. Quanto alla stretta sulle moschee, già nel dicembre 2014 il Governo aveva annunciato di avere il pieno controllo di tutti i luoghi di culto, ma evidentemente in modo parziale e comunque inefficace. Tali risposte suggeriscono quindi una certa inadeguatezza delle istituzioni di fronte alla minaccia terroristica, oltre a evidenziare un approccio sbilanciato sul contrasto del fenomeno a discapito della prevenzione.

Anche laddove la Tunisia ha messo in campo un’azione sistematica di contrasto al terrorismo, tuttavia, mancano risultati apprezzabili. È il caso della campagna concentrata nell’ovest, fra el-Kef e i Monti Chaambi, dove sono attive diverse cellule terroristiche come la brigata Oqba ibn Nafa, che mantengono stretti contatti con i gruppi attivi in territorio algerino e godono del supporto tattico e logistico di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM). Il compito è reso più complicato dall’estrema fluidità con cui gli affiliati di Oqba ibn Nafa dichiarano e ritirano alleanze (sia verso al-Qaeda che verso l’IS) e dalla rapidità con cui si muovono a cavallo delle frontiere per unirsi temporaneamente ad altre formazioni jihadiste, sicché una sicura identificazione e localizzazione delle diverse cellule richiede un notevole dispendio di risorse. Fra le cause dei pochi risultati ottenuti finora vanno annoverate la relativa inesperienza dell’apparato di sicurezza tunisino in materia di anti-terrorismo, in capo alle Brigate Antiterrorismo (BAT) dipendenti dal Ministero dell’Interno e alle Unità Speciali della Guardia Nazionale; l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione; la scarsità di risorse destinate all’intero comparto sicurezza. Ciò ha spinto il Governo a richiedere supporto diretto sia a livello regionale (Algeria) che internazionale (Stati Uniti). Fin dal dicembre 2012 la Tunisia ha istituito diverse zone militari nelle aree di confine con l’Algeria. I militari tunisini sono impegnati principalmente in pattugliamenti, mentre l’aeronautica di Algeri effettua raid aerei. Dal marzo di quest’anno il dispositivo militare è ulteriormente rafforzato dalla presenza di almeno un velivolo con capacità IMINT e SIGINT a gestione statunitense. [2] Tale cooperazione in futuro potrebbe trovare ulteriori approfondimenti grazie al riconoscimento americano della Tunisia come “Major Non-Nato Ally” (MNNA), ufficializzato a luglio in seguito all’attentato di Sousse. [3]

Tuttavia, finora non è stato registrato alcun cambio di passo. Nonostante l’ampio risalto che il Governo dà agli arresti di militanti jihadisti e ai sequestri di armi e materiale esplosivo, la presenza di cellule terroristiche non è diminuita sensibilmente, né sono stati interrotti i contatti con AQMI. Le pattuglie dell’esercito tunisino continuano a cadere in frequenti imboscate, il cui bilancio è spesso aggravato dalla carenza di mezzi blindati. Inoltre, i migliori risultati delle attività di reconnaissance che potrebbero arrivare nel prossimo futuro rischiano di non avere adeguato riscontro nelle capacità di contrasto operativo sul terreno, le uniche che possono portare risultati concreti e duraturi. [4] In conclusione, la Tunisia investe – e probabilmente continuerà ad investire anche nel breve periodo – la maggior parte delle sue risorse in attività di mero contenimento.

In questo senso, la Tunisia affronta la minaccia terroristica come un fenomeno meramente esterno, sottovalutando i fattori endogeni e le dinamiche di radicalizzazione in atto che hanno invece svolto un ruolo di primo piano negli ultimi anni. Ciò è evidente se si considera che l’unica risposta al caos libico si è concretizzata nell’aumento dei controlli alla frontiera e nella costruzione del muro lungo il confine. Se è vero che gli attentatori del Bardo e di Sousse avevano ricevuto il loro addestramento in campi jihadisti situati fra Tripoli e Ras Jedir, non vanno sottovalutati i profondi rapporti fra certi ambienti salafiti tunisini e le analoghe realtà libiche.

Infatti, numerosi esponenti del Gruppo dei combattenti islamici libici (LIFG) avevano trovato rifugio in Tunisia all’inizio degli anni Novanta a causa della repressione di Gheddafi, entrando in contatto con quei gruppi salafiti dissidenti, che avevano abbandonato il Movimento di Tendenza Islamica nella sua transizione a forza islamista moderata sotto il nome di Ennahda. Esponenti di punta del LIFG combattono oggi in Libia inquadrati in formazioni jihadiste afferenti tanto alla galassia di al-Qaeda quanto al nascente nucleo dell’ISIS localizzato nella zone di Sirte. E proprio in Libia hanno riparato molti membri di Ansar al-Sharia in Tunisia (AST), fra cui Abu Iyadh, quando la Tunisia ha dichiarato fuorilegge il movimento nell’agosto del 2013 [5]. La rapida affermazione dell’IS ha ulteriormente sottolineato l’esistenza di un elevato rischio di radicalizzazione in Tunisia. Ad oggi si stima che i combattenti di origine tunisina in Siria e Iraq siano fra i 3.000 e i 6.000, il contingente più nutrito. Oltre a sottolineare la possibilità che parte di questi combattenti torni in Tunisia e prosegua lì il jihad, questo dato fa inoltre emergere l’esistenza di un’estesa filiera di reclutamento all’interno del Paese.

Per affrontare il fenomeno della radicalizzazione, la Tunisia si sta innanzitutto dotando delle capacità di intelligence necessarie. In questo senso ha stretto accordi di cooperazione con gli USA nel quadro dello status di MNNA, che dovrebbero consentire una migliore collaborazione nello scambio di informazioni. Di particolare rilevanza è poi la creazione di una task force anti-terrorismo annunciata già a fine 2014 ma divenuta realmente operativa solo nel luglio successivo, con l’approvazione della nuova legge anti-terrorismo. Tale task force è suddivisa in due poli, con compiti rispettivamente investigativi e giudiziari. Benché questa struttura possa permettere di gestire le migliaia di dossier aperti, restano seri dubbi sulla reale efficacia dell’azione degli apparati di sicurezza interni. Infatti, nonostante gli aiuti esteri e i numerosi accordi di cooperazione in essere (fra i principali accordi quelli stipulati con Spagna, Germania, Turchia, Qatar), le forze di sicurezza patiscono ancora di un alto livello di corruzione, ereditato dal regime di Ben Ali. Un fattore ancora più grave è rappresentato dalla crescente frammentazione istituzionale del comparto sicurezza, che riguarda sia le divisioni e le diffidenze tra le diverse branche (Sicurezza Nazionale, Polizia, Guardia Nazionale, gli organi di difesa civile e l’amministrazione penitenziaria), sia la competizione con i poteri legislativo ed esecutivo che mira a preservare quell’elevato grado di autonomia acquisito sotto il regime di Ben Ali.  Una profonda riforma dell’intero comparto di sicurezza interna, tuttavia, sembra ancora di là da venire [6].

Tuttavia il fenomeno della diffusione e del radicamento del terrorismo in Tunisia presenta delle peculiarità che non possono essere affrontate con un approccio meramente securitario. Infatti, soprattutto nel sud del Paese le cellule jihadiste riescono a instaurare un rapporto simbiotico con la popolazione locale, ricevendo quindi assistenza logistica e maggiore controllo del territorio. Solo nella provincia di Tataouine, dove si trova il valico di Ras Jedir, si stima che il commercio informale occupi circa il 20% della popolazione attiva, rappresentandone così la principale – se non l’unica – fonte di reddito. Una situazione simile si ravvisa anche nell’ovest, nelle aree di Kasserine e, in misura minore, di el-Kef. Vi è quindi un intreccio fra contrabbando e jihad, che garantisce la sussistenza delle fasce più povere della popolazione e, al contempo, i rifornimenti di uomini e mezzi necessari alle cellule terroristiche per prosperare [7]. Pertanto, un approccio esclusivamente securitario nel contrasto al terrorismo rischia di esasperare ancora di più le tensioni sociali già esistenti, creando le condizioni ideali per favorire quello stesso fenomeno di radicalizzazione che si voleva combattere.

Un discorso analogo può essere fatto per le province centrali della Tunisia, come Gafsa, Kasserine e Kairouan, dove la situazione economica è andata peggiorando dal 2011 a oggi a causa del calo di produzione in agricoltura e nell’estrazione di fosfati. Il tasso di disoccupazione, in aumento, è stabilmente il doppio della media nazionale. I piani di rilancio della regione annunciati da tutti i Governi succedutisi dopo la cacciata di Ben Ali sono stati completamente disattesi, col risultato di esasperare ulteriormente proprio quei cittadini da cui erano partite le rivendicazioni che avevano portato alla rivoluzione. La situazione appare critica anche nelle periferie delle maggiori città e, se il settore turistico crollato del 20% dopo gli attentati di quest’anno non saprà risollevarsi rapidamente, ciò è destinato a coinvolgere anche larga parte della popolazione della fascia costiera. Dell’aggravamento delle condizioni economiche generali si potrebbero facilmente avvantaggiare i numerosi gruppi e movimenti salafiti diffusi sull’intero territorio nazionale, che continuano sotto traccia la loro opera di dawa (genericamente inteso come proselitismo) e riescono a garantire un sistema parallelo di welfare ai più bisognosi. [8]

In questo senso appare prioritario il recupero di un dialogo serrato con quelle organizzazioni sindacali, su tutte l’Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (UGTT), che negli ultimi mesi hanno promosso scioperi a oltranza paralizzando spesso l’intero Paese. Infatti, come in altri periodi turbolenti della storia della Tunisia (le cosiddette “rivolte del pane” nel 1984, le rivolte di Gafsa del 2008), dal 2011 l’UGTT ha svolto un importante ruolo di mediazione fra istituzioni e società civile, riuscendo a esercitare notevoli pressioni sull’Esecutivo guidato da Ennahda durante la stagione degli omicidi politici e catalizzando le istanze di larghi settori della popolazione che temevano un’interruzione della fase costituente. Inoltre, l’UGTT ha una storica diffusione capillare sul territorio, in particolare nelle regioni più povere del centro-sud come quelle di Gafsa e Kasserine, dove gli effetti della diseguaglianza sociale sono più avvertiti, grazie alla quale i suoi rappresentanti potrebbero svolgere un’importante funzione di raccordo con le realtà locali e contribuire alla coesione sociale su una scala alla quale i partiti politici e l’esecutivo faticano a far sentire la propria presenza.

* Lorenzo Marinone è Analista di Relazioni Internazionali e OPI Contributor

[1] Per un elenco dettagliato degli attacchi terroristici in Tunisia dal 2011, si veda W. Mejri, Terrorisme en Tunisie. Carte interactive des evénéments après le 14 janvier, in “Inkyfada”, 26 giugno 2015.

[2] Si veda l’inchiesta di K. Zriba e M. Khadhraoui, Avion N351DY: quand la défense américaine “assiste” la Tunisie, in “Inkyfada”, 3 aprile 2015. Dalla metà di settembre, l’aereo ha pressoché interrotto i voli di sorveglianza sui Monti Chaambi. I dati di volo riportati dal sito Flighradar24 mostrano che il velivolo si è diretto con frequenza giornaliera da Pantelleria verso la Libia, presumibilmente in direzione di Tripoli e Misurata. Pochi minuti prima di raggiungere la Libia il transponder viene disattivato.

[3] Lo status di MNNA permette maggiore cooperazione a livello di intelligence e programmi di addestramento specifici per le Forze Armate, semplifica le procedure per l’ottenimento di finanziamenti, e si traduce in una via preferenziale per concludere contratti in materia di difesa. La Tunisia era già inserita all’interno della Trans-Saharan Counterterrorism Initiative, programma statunitense avviato nel 2005 di addestramento congiunto con 11 Stati della fascia del Sahara-Sahel, e nelle relative esercitazioni annuali Flintlock.

[4] Gli unici mezzi in dotazione all’Esercito tunisino per far fronte a imboscate con ordigni improvvisati sono i vecchi carri armati M60, con i quali però è pressoché impossibile battere le aree montuose. Attualmente i mezzi impiegati nelle operazioni lungo il confine con l’Algeria sono i corazzati da trasporto truppe M113 e Fiat 6614, comunque vulnerabili agli esplosivi. Le acquisizioni più recenti riguardano l’Aeronautica e non vanno oltre gli 8 elicotteri da combattimento UH-60 Black Hawk ricevuti dagli Stati Uniti.

[5] Per una ricostruzione dei rapporti fra i diversi gruppi jihadisti attivi nel Paese e le recenti affiliazioni ad al-Qaeda e IS, si veda A. Zelin, Between the Islamic State and al-Qaeda in Tunisia, in “The International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence” (ICSR), 11 maggio 2015. Dello stesso, per i rapporti fra jihadismo tunisino e libico si veda The Tunisian-Libyan Jihadi Connection, in “ICSR”, 6 luglio 2015. Per un’analisi dell’evoluzione di Ansar al-Sharia in Tunisia, si veda D. Gartenstein-Ross, Ansar al-Sharia Tunisia’s Long Game: Dawa, Hisba and Jihad, in “International Center for Counter-Terrorism” (ICCT), maggio 2013; e dello stesso, Raising the Stakes: Ansar al-Sharia in Tunisia’s Shift to Jihad, in “ICCT”, febbraio 2014.

[6] Si veda il recente report dell’International Crisis Group, Reform and Security Strategy in Tunisia, 23 luglio 2015.

[7] Tale intreccio è ampiamente analizzato in due report dell’International Crisis Group, Tunisia’s Borders: Jihadism and Contraband del novembre 2013 e Tunisia’s Borders (II): Terrorism and Regional Polarisation dell’ottobre 2014.

[8] Questa dinamica si è già verificata nel recente passato. Si veda F. Cavatorta, Salafism, liberalism and democratic learning in Tunisia, in “The Journal of North African Studies”, 12 settembre 2015.

Credit mappe: International Crisis Group

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