I dolori di un giovane backpacker

Creato il 09 gennaio 2013 da Guidoeug @EugenioGuidotti

Cygnet, TAS, 8 gen 2012, ore 19:45

Questa è una fase delicata del mio cammino in Australia. E’ delicata perché è pesante sopra ad ogni limite. E’ delicata perché può farmi scoppiare da un momento all’altro. Sono una bomba che rotola. Tutto quello che ho visto e fatto quaggiù, da Perth a Bourke attraverso mezzo continente australiano, culmina con la situazione peggiore immaginabile. Ho finito i sinonimi presenti nel mio vocabolario e non ho abbastanza linea per farmi aiutare da Google. Se l’inferno avesse un nome, non sarebbe Bourke: sarebbe Tasmania. Una sirena, tanto bella quanto letale. Il suo canto attira innumerevoli sventurati che finiscono poi invischiati tra le sue braccia e lì rimangono per sempre. Molti backpackers hanno fatto naufragio quaggiù, attirati da una stagione di raccolta che prometteva essere ricca e che invece si è rivelata povera e spietata, crudele come le persone che sfruttano i viaggiatori. Proprietari di ostelli, farmers, albergatori ed anche tassisti. Tutti a sfruttare tutti finché ce n’è. E quando un non ne ha più, ce n’è subito un altro a sostituirlo.

Le mie condizioni di vita qui non credo siano classificabili come umane. Siamo bestie, schiavi o qualunque altra parola renda l’idea. Al prezzo di 175 dollari la settimana ho solo un tetto di lamiera sulla testa. Niente luce, i bagni sono lontani e non posso usarli tutti, la cucina è sporca, piena di insetti e sempre piena di altri pezzenti che cercano un angolo il meno sporco possibile per cucinare qualcosa di commestibile e mangiarlo in fretta. Il lavoro non è faticoso ma è sottopagato al massimo. Un dollaro al chilo per un cesto di ciliege perfette. Una ventina di quelle brutte e il supervisore ti dice che il prossimo non te lo pagano. Otto dollari ogni quarantacinque minuti da cui togliere le tasse. L’estate qui è un autunno. E’ freddo, piove spesso ed è sempre nuvoloso. L’acqua da bere è gialla o marroncina e quelle poche volte che il cesso non è occupato è sempre senza carta igienica. Appena dimentichi o appoggi qualcosa, è sparita. L’ostello è sovraffollato al massimo. Gente che paga anche più di me per dormire chi in una macchina, chi in un van scassato. I più fortunati vivono in tenda alla modica cifra di ottanta dollari alla settimana. E il tempo corre. Mi mancano ancora una quarantina di giorni da fare per il visto e di lavoro non ce ne è tanto. Tutti vogliono lavorare. Tutti cercano lavoro e a tutti va bene qualunque sistemazione. Un esercito di pezzenti. Per chi sa di cosa sto parlando, la tragedia degli Oakies.

Non capisco ancora bene che effetto avrà tutto questo su di me. L’entusiasmo è storia e ogni momento mi chiedo quanto tutto questo valga la pena. Credevo di essere forte ma forse non lo sono abbastanza. Non voglio cedere, ancora. Non voglio mollare. Ogni volta che penso di farlo penso a “Furore”, il libro di Steinbeck, e penso a tutte quelle persone che fanno questa vita ma non hanno la possibilità di ritornare a casa. O non hanno una casa affatto. Il mondo ne è pieno, ma non immaginavo di sentirmi così vicino a loro. E’ tremendo, tutti abbiamo il morale a terra ma vogliamo andare avanti. Ci proviamo. Basterebbero anche solo condizioni di vita migliori. Una stanza, la luce, un bagno. Sarebbe sufficiente, ma al momento non ci sono. Non resta che sperare. Se fossi credente pregherei, a questo punto. Purtroppo non ho nemmeno questo conforto. Sono solo un altro backpacker in cerca di lavoro e di un visto. E scusate se sono ripetitivo.



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