I fantasmi del capitale

Creato il 30 maggio 2012 da Tnepd

Arundhati Roy ha scritto il pluripremiato romanzo Il dio delle piccole cose. Roy e’ anche una giornalista e una militante. “I fantasmi del capitale” è un suo articolo molto lungo, ma vale la pena darci una occhiata per come viene descritto il business della povertà, come le multinazionali costituiscono fondazioni che si insinuano in organizzazioni non governative, istituzioni di beneficenza, volontariato, azioni umanitarie e soccorrevoli, mettendo in evidenza le funzioni di depistaggio, corruzione, anestetizzazione e intossicazione delle opposizioni sociali.

L’articolo in origine è apparso su OUTLOOK India

I FANTASMI DEL CAPITALE

di Arundhati Roy

da www.znetitaly.org
Pubblicato da Internazionale n. 943 del 12 aprile 2012

E’ un edificio o una casa? Un tempio della nuova India o un deposito dei suoi fantasmi? Sin da
quando Antilla è arrivata ad Altamont Road a Mumbai, essudando mistero e una minaccia
silenziosa, le cose non sono più state le stesse. “Eccoci qua” ha detto l’amico che mi ha portata lì,
“Presenta i tuoi ossequi al nuovo Sovrano”.
Antilla appartiene all’uomo più ricco dell’India, Mukesh Ambani. Avevo letto di questa abitazione,
la più costosa mai costruita, ventisette piani, tre piattaforme di atterraggio per elicotteri, nove
ascensori, giardini pensili, sale da ballo, stanze climatiche, palestre, sei piani di parcheggi, e
seicento addetti. Niente mi aveva preparata al prato verticale, una torreggiante parete d’erba che
cresce su una vasta griglia metallica. L’erba aveva chiazze secche; parti erano cadute in rettangoli
precisi. Chiaramente la ‘ricaduta dall’alto’ non ha funzionato.
Ma di sicuro ha funzionato lo ‘zampillo verso l’alto’. E’ per questo che in una nazione di 1,2
miliardi di abitanti, i 100 più ricchi dell’India possiedono un patrimonio equivalente a un quarto del
PIL.
Le voci che corrono tra il popolo (e nel New York Times) sono, o almeno sono state, che dopotutto
quello sforzo e quel giardinaggio, gli Ambani non vivono ad Antilla. Nessuno lo sa per certo. Si
continua a sussurrare di fantasmi e malasorte, Vaastu e Feng Shui. Forse è tutta colpa di Carlo
Marx. (Tutte quelle bestemmie). Il capitalismo, diceva, “ha evocato mezzi di produzione e di
scambio così giganteschi è come il mago che non è più in grado di controllare i poteri dei mondi
inferi che egli ha richiamato con i suoi incantesimi.”
I India i 300 milioni tra noi che appartengono alla nuova classe media delle “riforme” post-FMI – il
mercato – vivono fianco a fianco con spiriti del mondo infero, i poltergeist dei fiumi morti, delle
sorgenti secche, delle montagne spoglie e delle foreste denudate; i fantasmi dei 250.000 agricoltori
perseguitati dai debiti che si sono suicidati e gli 800 milioni che sono stati impoveriti ed espropriati
per far spazio a noi. E che sopravvivono con meno di 20 rupie al giorno [circa 30 centesimi di euro
– n.d.t.].
Mukesh Ambani vale personalmente 20 miliardi di dollari. Detiene la maggioranza azionaria di
controllo della Reliance Industries Limited (RIL), una società con una capitalizzazione di mercato
di 47 miliardi di dollari e interessi imprenditoriali globali che includono la petrolchimica, il petrolio,
i gas naturali, le fibre in poliestere, le Zone Economiche Speciali, il commercio al dettaglio di cibo
fresco, le scuole superiori, la ricerca nelle scienze naturali e i servizi di conservazione delle cellule
staminali. La RIL ha recentemente acquistato il 95% delle azioni della Infotel, un consorzio
televisivo che controlla 27 canali televisivi giornalistici e di intrattenimento, compresi CNN-IBN,
IBN Live, CNBC, IBN Lokmat ed ETV in quasi ogni lingua regionale. Infotel detiene l’unica
licenza a livello nazionale per la banda larga a 4G, un “canale informativo” ad alta velocità che, se
la tecnologia funzionerà, potrebbe essere il futuro dello scambio di informazioni. Il signor Ambani è
proprietario anche di una squadra di cricket.
La RIL è una di un pugno di imprese che governano l’India. Alcune altre sono le Tatas, Jindals,
Vedanta, Mittals, Infosys, Essar e l’altra Reliance (ADAG) di proprietà del fratello di Mukesh, Anil.
La loro corsa alla crescita si è rovesciata sull’Europa, l’Asia Centrale, l’Africa e l’America Latina.
Le loro reti sono gettate su grandi spazi; sono visibili e invisibili, in superficie e sotterranee. Le
Tatas, ad esempio, gestiscono più di 100 imprese in 80 paesi. Sono una delle più antiche e più vaste
compagnie indiane nel settore energetico. Sono proprietarie di miniere, di giacimenti di gas, di
impianti siderurgici, di reti telefoniche, televisive via cavo e a banda larga, e governano interi
distretti. Producono auto e camion, possiedono la catena Taj Hotel, la Jaguar, la Land Rover, la
Daewoo, la Tetley Tea, una società editrice, una catena di librerie, uno dei principali marchi di sale
iodato e il gigante della cosmetica Lakme. Il loro motto pubblicitario potrebbe essere facilmente:
Non Potete Vivere Senza di Noi.
In base alle regole del Vangelo dei Flussi Verso l’Alto, quanto più hai, tanto più puoi avere.
L’era della Privatizzazione di Tutto ha reso l’economia indiana una delle più velocemente in
crescita del mondo. Tuttavia, come ogni buona vecchia colonia, una delle sue principali esportazioni è quella dei suoi minerali. Le nuove mega-imprese indiane – Tatas, Jindals, Essar, Relianca, Sterlite – sono quelle che sono riuscite ad aprirsi a forza la strada fino al rubinetto che fa scorrere denaro estratto dalle profondità della terra. E’ il sogno diventato realtà di ogni uomo d’affari: poter vendere ciò che non si è costretti a comprare.
L’altra fonte principale di ricchezza imprenditoriale è costituita dalle terre. In tutto il mondo,
governi locali deboli e corrotti hanno aiutato gli operatori di Wall Street, le industrie agroalimentari
e i miliardari cinesi ad ammassare enormi estensioni di terreno. (Ovviamente ciò implica anche il
dominio sull’acqua). In India la terra di milioni di persone viene acquistata e passata alle industrie
private per “interesse pubblico”, per Zone Economiche Speciali, progetti infrastrutturali, dighe,
autostrade, fabbriche di automobili, centri chimici e gare di Formula Uno. (La sacralità della
proprietà privata non si applica mai ai poveri.) Come sempre, alle popolazioni locali viene
promesso che il loro trasferimento dalle loro terre e l’espropriazione di tutto ciò che abbiano mai
posseduto fa davvero parte della creazione di occupazione. Ma a questo punto sappiamo che il
collegamento tra la crescita del PIL e i posti di lavoro è un mito. Dopo vent’anni di “crescita”, il 60
per cento della forza lavoro indiana lavora in proprio, il 90 per cento della forza lavoro indiana
opera nel settore non sindacalizzato.
I movimenti popolari Post-Indipendenza, sino agli anni ’80, dai Naxaliti al Sampoorna Kranti di
Jayaprakash Narayan, hanno combattuto per le riforme agrarie, per la redistribuzione della terra dai
signori feudali ai contadini che ne erano privi. Oggi qualsiasi discorso di redistribuzione della terra
o della ricchezza sarebbe considerato non solo non democratico, ma addirittura folle. Persino i
movimenti più militanti sono stati ridotti a lottare per conservare quel poco di terra che la gente ha
ancora. I milioni di senza terra, la maggioranza di essi Dalit e Adivasi, cacciati dai loro villaggi,
residenti in baraccopoli e ghetti in piccoli paesi e in megalopoli non compaiono nemmeno nel
dibattito radicale.
Con i Flussi Verso l’Alto che concentrano la ricchezza sulla punta di uno spillo scintillante su cui
piroettano i miliardari, maree di denaro si abbattono sulle istituzioni della democrazia: i tribunali, il
parlamento nonché i media, compromettendo gravemente la loro capacità di funzionare nel modo in
cui dovrebbero. Più è rumoroso il carnevale che accompagna le elezioni, meno siamo sicuri che
esista davvero la democrazia.
Ogni nuovo scandalo di corruzione che emerge in India fa apparire domato l’ultimo che lo ha
preceduto. Nell’estate del 2011 è esploso lo scandalo dello spettro 2G. Abbiamo appreso che le
imprese avevano immesso 40 miliardi di fondi pubblici installando un’anima amica come ministro
delle telecomunicazioni dell’Unione che ha sottostimato le licenze dello spettro telecom a 2G e le
ha illegalmente distribuite ai suoi compari. Le conversazioni telefoniche registrate fatte filtrare alla
stampa hanno mostrato come una rete di industriali e delle loro società di facciata, ministri,
giornalisti importanti e conduttori televisivi di riferimento sia stata coinvolta nell’agevolare questa
rapina alla luce del sole. I nastri sono stati soltanto una radiografia che ha confermato una diagnosi
che il popolo aveva fatto già tanto tempo fa.
La privatizzazione e la vendita illegale dello spettro delle telecomunicazioni non implica guerre,
sfollati e devastazione ecologica. La privatizzazione delle montagne, dei fiumi e delle foreste
dell’India lo fa. Forse perché non ha la chiarezza non complicata di uno scandalo contabile
matricolato diretto, o forse perché tutto viene fatto nel nome del “progresso” dell’India, non ha la
stessa eco presso la classe media.
Nel 2005 i governi degli stati di Chhattisgarh, Orissa e Jharkhand hanno firmato centinaia di
Protocolli d’Intesa (MoU) con una quantità di imprese private trasferendo trilioni di dollari di
bauxite, minerale di ferro e altri minerali per una miseria, ignorando persino la distorta logica del
libero mercato. (I diritti pagati al governo variavano dallo 0,5% al 7%).
Solo qualche giorno dopo il governo di Chhattisgarh ha firmato un MoU per la costruzione di un
impianto siderurgico integrato con la Tata Steel, ed è stata creata un milizia di vigilantes, la Salwa
Judum. Il governo ha dichiarato che si è trattato di una sollevazione spontanea della popolazione
locale che ne aveva abbastanza della “repressione” da parte della guerriglia maoista della foresta. Si
è rivelata essere un’operazione di pulizia del territorio, finanziata e armata dal governo e
sovvenzionata dalle imprese minerarie. Negli altri stati sono state create milizie simili, con altri
nomi. Il primo ministro ha annunciato che i maoisti erano “la singola maggiore sfida all’India”. E’
stata una dichiarazione di guerra.
Il 26 gennaio 2006, a Kalinganagar, nello stato confinante di Orissa, forse per segnalare la serietà
delle intenzioni del governo, dieci plotoni di polizia sono arrivati sul sito di un altro impianto della
Tata Steel e hanno aperto il fuoco contro gli abitanti dei villaggi che si erano riuniti per protestare
contro quello che ritenevano un risarcimento inadeguato per la loro terra. Tredici persone, compreso
un poliziotto, sono state uccise e 37 ferite. Sono passati sei anni e anche se i villaggi sono rimasti
sotto assedio la protesta non è morta.
Nel frattempo nel Chhattisgarh, la milizia Salwa Judum ha incendiato, violentato e ucciso per
aprirsi la strada attraverso centinaia di villaggi della foresta, evacuando 600 villaggi, costringendo
50.000 persone a presentarsi agli accampamenti della polizia e 350.000 persone a fuggire. Il primo
ministro ha annunciato che quelli che non abbandonavano la foresta sarebbero stati considerati
“terroristi maoisti”. In questo modo, in parti dell’India moderna, arare la terra e seminarla sono
finite per essere considerate attività terroristiche. Alla fine le atrocità della Salwa Judum sono
riuscite solo a rafforzare la resistenza e a rafforzare i ranghi dell’esercito guerrigliero maoista. Nel
2009 il governo ha annunciato quella che è stata chiamata Operazione Caccia Verde.
Duecentomila paramilitari sono stati dispiegati in Chhattisgarh, Orissa, Jharkhand e Bengala
Occidentale.
Dopo tre anni di “conflitti a bassa intensità” che non sono riusciti a far uscire i ribelli dalla foresta, i
governo centrale ha dichiarato che impiegherà l’esercito e l’aviazione indiana. In India non la
chiamiamo guerra. La chiamiamo “creare un clima favorevole agli investimenti”. Sono fatte
arrivare migliaia di soldati. Un quartier generale di brigata e basi aeree sono in corso di
approntamento. Uno dei maggiori eserciti del mondo sta ora preparando le sue Regole d’Ingaggio
per “difendersi” dai più poveri, dai più affamati, dai più malnutriti del mondo. Aspettiamo solo la
dichiarazione della Legge sui Poteri Speciali delle Forze Armate (AFSPA) che darà all’esercito
l’immunità legale e il diritto di uccidere i “sospetti”. Visitando le decine di migliaia di tombe senza
nome e di pire anonime di cremazione in Kashmir, Manipur e Nagaland, si constata un esercito
davvero molto sospetto.
Mentre si fanno i preparativi per lo spiegamento, le giungle dell’India Centrale continuano a restare
sotto assedio, con gli abitanti dei villaggi hanno paura di uscire allo scoperto o di andare al mercato
per rifornirsi di cibo o medicine. Centinaia di persone sono state incarcerate, accusate di essere
maoisti in base a leggi draconiani, non democratiche. Le prigioni sono affollate di adivasi, molti dei
quali non hanno idea di quali siano i loro reati. Recentemente Soni Sori, una maestra di scuola di
Bastar, è stata arrestata e torturata mentre nelle mani della polizia. Le sono state messe pietre nella
vagina per farla “confessare” di essere un corriere maoista. Le pietro sono state rimosse dal suo
corpo in un ospedale di Calcutta dove, dopo una protesta pubblica, è stata inviata per un controllo
medico. In una udienza della Corte Suprema gli attivisti hanno presentato le pietre ai giudici in una
borsa di plastica. L’unico risultato dei loro sforzi è stato che Soni Sori resta in prigione mentre ad
Ankit Garg, il sovrintendente della polizia che ha condotto l’interrogatorio, è stata conferita la
medaglia al valore del presidente alla polizia nel giorno della festa nazionale.
Veniamo a sapere della reingegnerizzazione ecologica e sociale dell’India Centrale solo a motivo
delle insurrezioni di massa e della guerra. Il governo non dà informazioni. I Protocolli d’Intesa sono
tutti segreti. Alcuni segmenti dei media hanno fatto quello che hanno potuto per attirare l’attenzione
del pubblico su ciò che accade nell’India Centrale. Tuttavia la maggior parte dei mass media indiani
sono resi vulnerabili dal fatto che la quota maggiore delle loro entrate proviene dalla pubblicità
delle imprese. Come se ciò non bastasse ora il confine tra i media e la grande industria ha
cominciato a confondersi pericolosamente. Come abbiamo visto, la RIL è virtualmente proprietaria
di 27 canali televisivi. Ma è vero anche il contrario. Alcuni società mediatiche ora hanno interessi
finanziari e industriali diretti. Ad esempio uno dei maggiori quotidiani della regione – il Dainik
Bhaskar (ed è solo uno degli esempi) – ha 17,5 milioni di lettori in quattro lingue, compresi
l’inglese e l’hindi, in 13 stati. E’ anche proprietario di 69 società con interessi nelle miniere,
nell’energia, nel settore immobiliare e in quello tessile.
Una recente istanza di citazione presentata all’Alta Corte del Chhattisgarh accusa la DB Power Ltd
(una delle società del gruppo) di utilizzare “misure deliberate, illegali e manipolatorie” mediante i
giornali di proprietà della società per influenzare il risultato di un’udienza pubblica relativa a una
miniera di carbone a cielo aperto. Che abbia o meno tentato di influenzare il risultato non è
rilevante. Il punto è che le imprese mediatiche sono in condizioni di farlo. Hanno il potere per farlo.
Le leggi del paese consentono loro di essere in una condizione che si presta a gravi conflitti
d’interesse.
Ci sono altre parti del paese da cui non arrivano notizie. Nello stato nord-orientale, scarsamente
popolato ma militarizzato, dell’Arunachal Pradesh, sono in corso di costruzione 168 grandi dighe, la
maggior parte delle quali di proprietà privata. Dighe altre che sommergeranno interi distretti sono in
costruzione nel Manipur e in Kashmir, entrambi stati altamente militarizzati in cui si può essere
uccisi semplicemente perché si protesta per i tagli all’elettricità (ciò è accaduto alcune settimane fa
in Kashmir). Come si può fermare una diga?
La diga più delirante di tutte è quella di Kalpasar nel Gujarat. E’ progettata come una diga lunga 34
chilometri attraverso il Golfo di Khambhat con un’autostrada a dieci corsie e una linea ferroviaria
che vi scorrono sopra. Escludendo l’acqua marina, l’idea è di creare una riserva di acqua dolce dei
fiumi del Gujarat. (Non importa che questi fiumi siano già stati ridotti a ruscelli della dighe e
avvelenati da scarichi chimici). La diga di Kalpasar, che innalzerebbe il livello del mare e
altererebbe l’ecologia di centinaia di chilometri di linea costiera, era stata scartata come una cattiva
idea dieci anni fa. Ha fatto un’improvvisa ricomparsa per fornire acqua alla Zona Speciale
d’Investimento (SIR) di Dholera, in una delle zone più idricamente travagliate non solo dell’India,
ma del mondo. SIR è un altro nome per una SEZ, una distopia industriale autogestita di “parchi
industriali, cittadine e megalopoli”. La SIRA di Dholera sarù collegata alle altre città del Gujarat da
una rete di autostrade a 10 corsie. Da dove verranno i fondi per tutto questo?
A gennaio 2011, nel Mahatma (Gandhi) Mandir, il primo ministro del Gujarat, Narendra Modi, ha
presieduto un convegno di 10.000 imprenditori internazionali di 100 paesi. Secondo i resoconti dei
media, si sono impegnati a investire 450 miliardi di dollari nel Gujarat. Il convegno è stato
programmato per aver luogo all’approssimarsi del decimo anniversario del massacro di 2.000
mussulmani nel febbraio-marzo 2002. Modi è accusato non soltanto di aver consentito, ma anche di
aver favorito le uccisioni. Chi ha visto i propri cari violentati, sbudellati e bruciati viti, le decine di
migliaia che sono stati cacciati dalla proprie case, attende ancora un gesto di giustizia. Ma Modi ha
scambiato la sua sciarpa di seta e il segno vermiglio sulla fronte con un vistoso abito da uomo
d’affari e spera che un investimento da 450 miliardi di dollari funzionerà da denaro sporco di
sangue per far quadrare i conti. Forse sarà così. La grande industria lo sostiene con entusiasmo.
L’algebra dell’infinita giustizia funziona in modi misteriosi.
La SIR di Dholera è solo una delle più piccole bambole Matrioska, una di quelle interne nella
distopia che viene pianificata. Sarà collegata al Corridoio Industriale Delhi Mumbai (DMIC), un
corridoio industriale lungo 1.500 chilometri e largo 300, con nove mega zone industriali, una linea
di trasporto merci ad alta velocità, tre porti marittimi e sei aeroporti, un’intersezione a sei corsie di
una superstrada gratuita e una centrale elettrica da 4.000 MW. Il DMIC è un’impresa associata tra i
governi dell’India e del Giappone e i loro rispettivi partner industriali, ed è stato proposto dal
McKinsey Global Institute.
Il sito web del DMIC afferma che circa 180 milioni di persone saranno “interessate” dal progetto.
Esattamente come, non lo dice. Esso prevede la costruzione di numerose città nuove e stima che la
popolazione della regione crescerà dagli attuali 231 milioni a 314 milioni entro il 2019. Cioè in
sette anni. Quando è stata l’ultima volta che uno stato, un despota o un dittatore ha attuato un
trasferimento di popolazione di milioni di persone? E’ possibile che sia un processo pacifico?
L’esercito indiano può trovarsi nella necessità di dedicarsi a una campagna di reclutamento in
mondo da non essere colto impreparato quando gli sarà ordinato di dispiegarsi nell’India intera. In
preparazione per il suo ruolo nell’India Centrale, ha diffuso pubblicamente la sua dottrina
aggiornata sulle Operazioni Psicologiche Militari che delinea “un processo pianificato per
trasmettere un messaggio a un pubblico selezionato per promuovere temi particolari che
determinino atteggiamenti e comportamenti desiderati, che influenzino il conseguimento di obiettivi
politici e militari nel paese.” Questo processo di “gestione della percezione”, ha affermato, verrebbe
attuato “utilizzando canali mediatici nella disponibilità dei servizi.”
L’esercito ha esperienza sufficiente per sapere che la sola forza di coercizione non è in grado di
realizzare o gestire l’ingegneria sociale nella scala prevista dai pianificatori dell’India. La guerra
contro i poveri è una cosa. Ma per il resto di noi – la classe media, i colletti bianchi, gli intellettuali,
chi “fa opinion” – deve trattarsi di un “gestione della percezione”. E per far questo si deve rivolgere
l’attenzione all’arte squisita della Filantropia Industriale.
Di recente, i principali conglomerati minerari hanno abbracciato le Arti: film, installazioni artistiche
e la corsa ai festival letterari che hanno sostituito l’ossessione degli anni ’90 per i concorsi di
bellezza. Vedanta, che attualmente estrae la bauxite dal cuore della patria dell’antica tribù Dongria
Kondh, patrocina un concorso cinematografico intitolato “Creare la felicità” per giovani studenti di
cinema ai quali è stata commissionata la realizzazione di film sullo sviluppo sostenibile. Lo slogan
della Vedanta è “Estrarre la Felicità”. Il Gruppo Jindal ha dato alla luce una rivista di arte
contemporanea e sostiene alcuni dei maggiori artisti indiani (che naturalmente lavorano con
l’acciaio inossidabile). La Essar è il principale patrono del Tehelka Newsweek Think Fest che ha
promesso “dibattiti ad alti ottani” tra i principali pensatori del mondo, compresi i maggiori scrittori,
attivisti e persino l’architetto Frank Gehry. (Tutto questo a Goa, mentre gli attivisti e i giornalisti
stavano scoprendo enormi scandali relativi ad attività minerarie illegali che coinvolgevano la
Essar). La Tata Steel e Rio Tinto (che hanno precedenti sordidi per conto loro) sono stati tra gli
sponsor principali del Festival Letterario di Jaipur (Nome completo: Darshan Singh Construction
Jaipur Literary Festival) che è pubblicizzato dai conoscitori come “La più grande manifestazione
letteraria del pianeta”. Counselage, il “gestore strategico del marchio” Tata, ha sponsorizzato
l’ufficio stampa del festival. Molti degli scrittori migliori e più brillanti del mondo si sono riuniti a
Jaipur per discutere di amore, letteratura, politica e poesia Sufi. Alcuni hanno tentato di difendere il
diritto di espressione di Salman Rushdie mediante letture dal suo libro proibito, “I versetti satanici”.
In ogni inquadratura televisiva e fotografia sulla stampa, il logo Tata Steel (e il suo slogan “Valori
più forti dell’acciaio”) incombeva su di loro da ospite benevolo e benigno. I nemici della Libertà di
Parola si presume fossero le folle mussulmane assassine che, ci hanno detto gli organizzatori del
festival, potevano addirittura aver armato gli scolari delle elementari riuniti qui. (Siamo testimoni di
quanto impotenti possano essere il governo e la polizia indiana quando si tratta di mussulmani). Sì,
il seminario islamico integralista di Darul-Uloom Deobandi ha effettivamente protestato contro
l’invito di Rushdie al festival. Sì, alcuni islamisti si sono effettivamente riuniti presso la sede del
festival per protestare e, sì, in modo offensivo il governo dello stato non ha fatto nulla per
proteggere il luogo. E’ perché l’intero episodio ha tanto a che fare con la democrazia, con gli
schieramenti elettorali e con le elezioni in Uttar Pradesh, quanto ha a che fare con il
fondamentalismo islamico. Ma la battaglia per la Libertà di Parola contro il Fondamentalismo
Islamista è arrivata sulle prime pagine dei giornali del mondo. E’ importante che ciò sia accaduto.
Ma non c’è stato praticamente alcun articolo sul ruolo dei patroni del festival nella guerra nelle
foreste, nell’accumularsi di cadaveri, nell’affollamento delle carceri. Né sulla Legge per la
Prevenzione delle Attività Illegali e sulla Legge Speciale sulla Pubblica Sicurezza del Chhattisgarh,
che fanno persino dell’avere un pensiero antigovernativo un reato perseguibile. O sull’udienza
pubblica obbligatoria relativa all’impianto di Lohandiguda della Tata Steel che i locali hanno
lamentato aver avuto in realtà luogo a centinaia di miglia di distanza a Jagdalpur, nell’ufficio
dell’esattore delle imposte, con un pubblico pagato di cinquanta persone sotto il controllo di guardie
armate. Dove stava la Libertà di Parola in quel caso? Nessuno ha citato Kalinganagar. Nessuno ha
citato il fatto che ai giornalisti, studiosi e registi che lavorano a soggetti che non piacciono al
governo indiano – come la parte la parte furtiva da esso avuta nel genocidio dei Tamil nella guerra
in Sri Lanka o le tombe non segnate recentemente scoperte in Kashmir – sono stati negati i visti o
sono stati rimpatriati direttamente dall’aeroporto.
Ma chi di noi peccatori avrebbe scagliato la prima pietra? Non io, che vivo di diritti d’autore di case
editrici industriali. Guardiamo tutti Tata Sky, navighiamo in rete con Tata Photon, ci spostiamo su
taxi Tata, soggiorniamo in Hotel Tata, sorseggiamo il nostro the Tata in porcellane fini Tata e lo
mescoliamo con cucchiaini da the prodotti dalla Tata Steel. Acquistiamo libri Tata in librerie Tata.
Hum Tata ka namak khate hain. Siamo sotto assedio.
Se il martello della purezza morale deve essere il criterio per il lancio delle pietre, allora gli unici ad
averne titolo sono quelli che sono stati già ridotti al silenzio. Quelli che vivono fuori dal sistema; i
fuorilegge nelle foreste o quelle le cui proteste non sono mai riferite dalla stampa o gli espropriati
che si comportano bene, che passano di tribunale in tribunale a riferire, a rendere testimonianza.
Ma il LitFest ci ha dato il nostro momento clou. E’ venuta Ophra. Ha detto che ama l’India, che
tornerà ancora molte volte. Ci ha resi orgogliosi.
Questo è solo il lato caricaturale dell’Arte Squisita.
Anche se i Tata sono impegnati nella filantropia industriale da ormai quasi un secolo, finanziando
borse di studio e amministrando alcuni eccellenti ospedali e istituti d’istruzione, le imprese indiane
sono state invitate solo di recente nella ‘Camera Stellata’, il mondo dalle luci abbaglianti del
governo globale delle imprese, mortale per i suoi avversari ma altrimenti così scaltro che a
malapena si sa che esiste.
Ciò che segue in questo saggio può sembrare ad alcuni una critica feroce. D’altro canto, nella
tradizione di onorare i propri avversari, potrebbe essere interpretato come un riconoscimento della
visione, flessibilità, sofisticazione e incrollabile determinazione di coloro che hanno dedicato la
propria vita a mantenere sicuro il mondo per il capitalismo.
La loro storia affascinante, che è svanita dalla memoria contemporanea, è iniziata negli Stati Uniti
agli inizi del ventesimo secolo quando, attrezzata sotto forma di fondazioni finanziate, la filantropia
industriale ha cominciato a sostituire l’attività missionaria come via capitalista (e imperialista)
all’apertura e alla salvaguardia del mantenimento dei sistemi. Tra le prime fondazioni create negli
Stati Uniti ci furono la Carnegie Corporation, finanziata nel 1911 con gli utili della Compagnia
Siderurgica Carnegie e la Fondazione Rockefeller, sovvenzionata nel 1914 da J.D.Rockfeller,
fondatore della Standard Oil Company. I Tata e gli Ambani dell’epoca.
Alcune delle istituzioni finanziate, dotate del capitale iniziale o sostenute dalla Fondazione
Rockfeller sono l’ONU, la CIA, il Consiglio per le Relazioni con l’Estero, il favoloso Museo di Arti
Moderne di New York e, naturalmente, il Centro Rockfeller di New York (dove il murale di Diego
Riviera dovette essere rimosso dalla parete perché ritraeva maliziosamente i capitalisti dissoluti e un
valoroso Lenin. La Libertà di Parola si era presa la sua giornata libera).
J.D.Rockfeller fu il primo miliardario statunitense e l’uomo più ricco del mondo. Era abolizionista,
sostenitore di Abraham Lincoln e astemio. Riteneva che il suo denaro gli fosse stato dato da Dio, il
che dovette essere una gran bella cosa per lui.
Ecco un estratto da una delle prime poesie di Pablo Neruda, intitolata ‘Standard Oil Company’:

I loro obesi imperatori di New York
sono assassini dal sorriso soave
che comprano seta, nylon, sigari,
piccoli dittatori e tiranni.

Comprano nazioni, popoli, mari, polizia, consigli comunali,
regioni remote dove i poveri ammassano il loro grano
come i taccagni il loro oro:
la Standard Oil li risveglia,
li mette in uniforme, stabilisce
quale fratello è il nemico.
Il paraguaiano combatte la sua guerra
e il boliviano deperisce
nella giungla con il suo mitra.

Un presidente assassinato per una goccia di petrolio,
un’ipoteca su un milione di acri,
un’esecuzione rapida in un mattino di luce mortale, pietrificato,
un nuovo capo di prigionia per i sovversivi,
in Patagonia, un tradimento, spari occasionali
sotto una luna di petrolio,
un astuto cambio di ministri
nella capitale, un sussurro
come una marea di petrolio,
e zap!, vedrete
come le lettere della Standard Oil brilleranno sopra le nuvole,
sopra i mari, a casa vostra,
illuminando i loro domini.


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