I Fantasmi di Arkana: Canzone d'amore di John Everson

Creato il 19 novembre 2011 da Alessandro Manzetti @amanzetti

Per chi non ha ancora scaricato Arkana-Racconti da Incubo (Il Posto Nero Free eBooks)  la raccolta eBook free di racconti horror di autori internazionali curata da me e Daniele Bonfanti, questa è l'occasione per leggere direttamente online uno dei racconti inclusi in Akana, Canzone d'amore di John Everson (Lovensong) tradotto da Luigi Milani. Ma anche per chi ha già scaricato l'eBook e già letto questo bellissimo racconto, si tratta di una occasione per poter ascoltare la musica che è una dei protagonisti del racconto, pervadendolo dal'inizio alla fine. Alcuni video inseriti ci consentono di ascoltare la colonna sonora immaginata da John Everson, grande appassionato di musica. Un viaggio tra le note degli anni '70 e '80, verso l'orrore e l'amore, un binomio che in questo racconto l'autore riesce a fondere mirabilmente, con una prosa ricca e elegante. Leggete, e ascoltate.
 Canzone d'amore di John Everson (traduzione di Luigi Milani) da Arkana-Racconti da Incubo (Il Posto Nero Free eBooks)
 E se solo potessi  farei un patto con Dio  E gli farei scambiare i nostri ruoli…  Kate Bush, Running up that hill (A deal with God)
  
 Lavorava al Record Stop e il suo nome era Lissa.  Lo metto per iscritto perché se ne sono andati entrambi ora. Qualcosa dovrebbe restare, anche se è solo un frammento della mia memoria. Chiamala la mia love story con Lissa. E con lo Stop. Mi mancano entrambi. Forse anche a te.  Naturalmente, la prima volta che tentai di attirare la sua attenzione, riuscii solo a scorgere di traverso il badge col suo nome e lo lessi pure male. Me ne uscii con un “Ehi Lisa” e il suo capo, conosciuto da tutti come “Il Maestro” grazie al suo programma su una radio locale, girò la testa di lato e mi diede un’occhiata della serie “Sei un cretino”. Ma non disse niente.  «È Lissa», corresse lei con leggerezza, sguainando la S mentre un sorriso illuminava quel viso pallido, affilato. Aveva grandi occhi scuri, del tipo che sembra scomparire di botto come voragini in una faccia a malapena larga abbastanza da circondarli. Il suo mento era piccolo e i capelli un nero casino di trecce e perline colorate. Penso di averla amata dal primo momento che l’ho vista. Mi piace pensare che anche lei sia andata in brodo di giuggiole per me. Anche se avevo capito male il suo nome.  «Posso aiutarti?» chiese lei, e all’improvviso realizzai che non avevo la più pallida idea di cosa chiederle.  «Uh, sì», dissi, dardeggiando con gli occhi per la stanza alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparmi. I miei occhi si posarono su un poster del Mabel’s, il rock bar dipinto di nero lungo la strada. «Avete il nuovo dei Savage Republic?»  Lei seguì il mio sguardo fino al poster del concerto. I Savage Republic erano in programma per venerdì.  «Sì, credo di sì», disse lei. «Da questa parte».  Sgusciò fuori da dietro il banco intruppato zeppo di roba e mi condusse attraverso le pile di dischi usati appena comprati e ancora da catalogare fino all’espositore “Cosa c’è di nuovo” al centro del negozio. Io le andai appresso, guardando i parameci della sua gonna di lana viola e nero scivolare e nuotare assieme a lei. Quando mi indicò l’album, mostrandomelo in mezzo a un guazzabuglio di altri titoli sconosciuti, riuscii appena a vederlo, mi limitai ad afferrarlo con una mano sola. Non potevo staccarle gli occhi di dosso. Lei sembrava non accorgersene, però. Contrasse le labbra in un rapido sorriso e proseguì lungo il corridoio.«Grazie», le dissi, alle sue spalle, tenendo l’album tra le mani. Non lo volevo in realtà; non avevo mai sentito parlare dei Savage Republic prima. E non compravo mai dischi nuovi; non avevo soldi per una simile stravaganza. Ma quel giorno spesi quasi tutto ciò che avevo nel mio portafoglio per comprarlo. Si rivelò mica male.     Lissa mi fece scoprire un sacco di band cool nelle settimane seguenti. Negli anni ’80 il Record Stop era il negozio di dischi definitivo al college; le pareti erano tappezzate dai poster di artisti alternativi (quando la parola “alternativa” significava ancora qualcosa) ed erano condivise in egual misura dagli LP ganzi di gruppi europop come Ultravox, degli Yello e di Alison Moyet, fino a formazioni underground più oscure ma di rilevanza nazionale, come gli Husker Du, i Mekons e i Cure, ma anche di artisti locali come gli Elvis Brothers e Paul Chastain (che una decade più tardi avrebbe trovato una sua nicchia con Matthew Sweet). I R.E.M. avevano sconvolto la scena chitarristica un paio d’anni prima con Murmur, e al posto dei taglienti inni solistici degli anni ’70, il negozio di solito echeggiava dei sonori arpeggi dei Feelies, dei Galaxie 500, dei Farmboys o di cose del genere. Oppure l’oscuro etereo goticismo dei Dead Can Dance e dei Cocteau Twins. O i Romeo Void. O i Colourbox. Di solito non sapevi che diavolo di rumore stava uscendo dagli speaker, ma era sempre una cosa di frontiera. Voci nebbiose per mood nebbiosi. Ti sentivi connesso a qualcosa di segreto e potente quando rimanevi un po’ al Record Stop.

 
«Chi é che sta suonando?» chiedevo a Lissa, dopo aver vagabondato qualche minuto, ascoltando il suono spesso cacofonico che divampava nel negozio. Non volevo sembrasse che fossi entrato solo per vedere lei. Ma era così.  «I Flaming Lips», disse lei una volta quando le chiesi informazioni su un pezzo particolarmente rumoroso, fatto di acuti heavy con una distorsione punkeggiante. «Fanno schifo», proclamai.  «Suonano domani da Chin», disse lei, indicando il poster del Live from Nebraska alla porta.  «Pensi che prenderanno un cantante solista per l’occasione?»  Fece un grande sorriso. Pensai che forse avevo una chance con lei.  «Cosa piace a te?» domandai.  Lei inclinò la testa, fissando per un momento il soffitto e poi lentamente cominciò a roteare lo sguardo attorno.  «Tutto», proclamò teatrale, rivolgendo le mani alle pareti, che mostravano gli ultimi lavori di Joy Division, Bauhaus, Psychedelic Furs, Smithereens, Orchestral Maneouvres in the Dark, I dB’s, Bruce Joyner, Black Flag e altri ancora. La parete delle “Nuove uscite” era sempre la mia preferita, perché aveva una tale diversità, e mostrava tutte quelle bizzarrie che non avrebbero mai raggiunto la vetrina principale degli altri negozi. Non sono neanche sicuro che lì avresti potuto trovare un album degli Wham! o degli Eurythmics, anche se quelli probabilmente erano i top seller al Discount Den in fondo alla strada. Ogni scelta sul muro del Record Stop aveva un piccolo sticker circolare sopra, con una descrizione in una o due frasi scritte a penna dal direttore del negozio. Il mio favorito per settimane fu un album di una band chiamata Dali’s Car che pareva una foto scattata in Paradiso. L’album era come un dipinto classico: due figure incorniciate da alcune colonne romane, tutti i colori blu cielo e oro. Non l’ho mai comprato, ma aveva un aspetto fantastico – un momento magico, catturato e condiviso senza permesso divino.  «Anche questo?» le chiesi, a proposito di una canzone dei Flaming Lips, in quel momento sparata a tutto volume.  «Certo», disse lei. «Hanno energia».

 
Ed ecco il mio lancio.  «Bene, ti va di venire a vederli domani con me?»  «Tu non vuoi vederli», disse lei, «ma grazie».  Mi strizzò l’occhio e se ne andò di soppiatto lungo il corridoio, uno dei gatti del negozio che balzava attraverso gli scaffali dei dischi per seguirla. Mi pare quello grigio.  Starnutii e persi l’attimo. Aveva iniziato a parlare con un altro tipo che stava scartabellando nelle offerte speciali da un dollaro e novantanove.  Starnutivo sempre in quel negozio. Amavo entrare e rovistare tra gli scaffali e scaffali di album, da quelli di Simon & Garfunkel, Santana e Seals e Crofts dei tardi ’60, intrisi della muffa della cantina allagata di qualcuno, agli Ambrosia, i Toto e i R.E.O., avanzi dei ’70, fino alle oscene copertine cartoonesche in bianco e nero dei singoli autoprodotti delle ultime band locali degli ’80. Tra la muffa dei vecchi dischi danneggiati dall’acqua e i gatti, me ne andavo sempre con il naso che colava.  Nel retro del negozio c’era una piccola sezione di noleggio video. Una serie di classici kitsch e di culto – i film della Pantera Rosa con Peter Sellers, una buona selezione dei film di Russ Meyer (incluso Faster Pussycat, Kill! Kill!, se non ricordo male), i film horror della Hammer e perfino, mi pare, Non violentate Jennifer. So che avevano Arancia meccanica perché una volta l’ho noleggiato lì. Dietro c’era una scala che conduceva fuori. Un giorno chiesi a Lissa dove portasse, e lei fece spallucce.  «Credo che ci tengano fondi di magazzino e roba del genere».  «Tu ci sei mai stata?»  Sembrò perplessa per un secondo, come confusa. Poi disse: «No», e sorrise. «Non consentito».  «Non consentito?»  Alzò di nuovo le spalle e volò via, lasciandomi mentre allungavo il collo per sbirciare i gradini, grigio-blu dipinti, che s’inerpicavano su in cima fino alla porta di legno marrone scuro. Il gatto nero sgusciò tra le mie gambe e balzò sul terzo gradino, quindi si girò a fissarmi, gli occhi verde-giallo, soffiando. Sfidandomi?  Lasciai perdere. Sarebbe stato meglio se non ci avessi più pensato. Ma la mia mente si aggrappa alle cose e rimugina e rimugina.
    
La volta seguente che ero lì, ricordo che Lissa era alla cassa quando saltai su per le scala dalla strada affollata sottostante. Il Record Stop era al secondo piano della strada principale del campus, e la sua stretta rampa di gradini dipinti valeva da solo una sosta. Anni di graffiti coprivano le mura grigie sulla salita, promuovendo band e bar e, naturalmente, fighette facili di qualche sorellanza.  Stavolta, scontratomi con la folla che acclamava le Slits come le migliori pupe di sempre, Lissa era sola alla cassa, e andai dritto da lei.  «Ehi», dissi. «Sentito qualcosa di buono ultimamente?»  Lei indossava un vestito estivo blu scuro, tinto a riserva con onde di porpora e cera. La faceva apparire pallida, ma bellissima. I suoi capelli ricadevano in pigre volute nere sulle sue spalle, e i suoi occhi sembravano particolarmente scuri. Mi chiesi se fosse andata a bere da Mabel’s la notte prima.  «No», disse lei, coprendo uno sbadiglio con la mano.  «Visto qualche spettacolo stanotte?»  Scosse la testa, no, di nuovo.  Parlammo di qualcosa, giusto due cazzate, e dietro di me entrò una coppia di punk, i capelli rosa acceso e dritti come la cresta di un cacatua. Il Maestro scattò verso la parte anteriore del negozio e Lissa sospirò.  «Andiamo, oggi ha la luna storta».  Andammo nel retro del negozio e lui mi guardò male quando gli passai da parte. Era un tipo che non avresti voluto far incazzare. Lo chiamavano Il Maestro dal titolo di una trasmissione radiofonica alternativa che conduceva a notte fonda alla stazione radio pubblica locale. Le sue descrizioni a bassa voce del fuoco di fila di chitarra distorta che trasmetteva erano in netto contrasto con i capelli neri lunghi fino alla cintola e gli occhi blu acciaio che sembravano scoppiargli fuori dal teschio quando ti guardava dritto in faccia. Probabilmente era un tipo a posto, ma dava l’impressione che avrebbe potuto strapparti un braccio e poi riderci sopra. Lo evitavo quando potevo.  Le spalle rivolte al nastro di Faster Pussycat, alzai lo sguardo e le feci un cenno.  «Il Maestro è indaffarato, non vuoi vedere cosa c’è lì?»  Giuro che alla proposta tremò visibilmente.  «No, non potrei proprio», disse. Guardò su per le scale tenendosi al telaio della porta, ma poi si ritrasse come in preda a una vertigine.  “Non sei curiosa di dove va?” dissi. Chiamatemi diavolo.  «Sì», ammise lentamente. «Ma se mi becca lassù… oggi sarebbe il giorno sbagliato».  Lasciai cadere. «Impegnata stasera?» tentai.  «Sì».  Strike due

Penso sia stata Lissa a convincermi a comprare il primo disco dei This Mortal Coil, It’ll End In Tears, perché non posso ascoltarlo nemmeno adesso senza pensare a lei. Non molto tempo dopo, comprai anche il loro secondo album, il doppio Filigree & Shadow. Tornato al college, ero solito spegnere tutte le luci e sdraiarmi sul pavimento ascoltando i tape loop imbevuti di riverberi e le voci ossessive come fosse la musica degli angeli. Di sicuro suonava come lo fosse.  «Riesci proprio sentire l’altro versante», mi diceva. Aveva ragione.  Su suo consiglio comprai un’edizione da collezione del vinile rosa marmorizzato di The Hounds of Love di Kate Bush. Aveva un gran gusto. Diceva che le piaceva tutto, e mi introdusse a cose davvero disparate, ma non mi suggerì mai niente che non mi piacesse.  «Puoi dare sempre fiducia a un artista se ha anima», mi spiegò una volta.  «Vuoi dire come Aretha Franklin?» le chiesi, diffidando. Non mi era mai piaciuta Aretha.  «No, voglio dire…» indicò la copertina grottesca di un album. L’avevo notata prima. La copertina era l’immagine della manina raggrinzita di un bambino abortito racchiusa nel palmo di un adulto. I Dead Kennedys. «Come questo», disse. «Loro non hanno paura di offendere. La musica può essere forte e abrasiva, ma sai che la faranno fino in fondo. Uno che ha la copertina di un album come questa è destinato a spingersi fino ai recessi della propria anima per la sua musica. Oppure prendi i Cocteau Twins. Vedi i loro album e sai che loro credono nella bellezza e nel mistero e nell’arte, e che faranno del loro meglio per trasmetterti tutto questo. Hanno anima».  «Quindi chiunque faccia uscire un album con una copertina interessante ha anima?» dissi, fraintendendola deliberatamente.  Mi tirò un’occhiata nera.  «Nooo», biascicò. «Ma pensaci. Queste band che posano in copertina nei loro pantaloni attillati di pelle, o, anche peggio, assoldano qualche ragazza perché posi mezzo nuda sul loro album. Che ti dice sulla loro musica? Cosa ti dice su che pensano della loro musica? Uno che crede nel proprio album abbastanza da far sì che la copertina sia splendida o d’effetto, che si relazioni in qualche profonda maniera con la musica – quelli hanno anima. Puoi fidarti di loro, ti trasmetteranno qualcosa di speciale».  Parlammo a lungo di estetica, Lissa e io. Amava i poster dei concerti quanto le copertine degli album. Avresti pensato che fosse una studentessa d’arte o di marketing. Ma lo era di Letteratura Inglese.  «Così devi leggere tutta quella merda poetica?» le chiesi una volta.  «Perché è merda poetica, mentre i versi di Kate Bush sono brillanti?» replicò. «Kate scrive poesia. Tu ami la poesia, finché ci sono una voce e un piano o una batteria dietro».  Non potevo argomentare, così rimasi zitto. Il gatto nero saltò sul bancone tra noi. Lei gli strofinò la schiena e il gatto arcuò il collo verso di lei, girandosi per essere sicuro che lei gli carezzasse ogni centimetro di spina dorsale.  «Gli Psychedelic Furs suonano allo Huff’s Gym domenica», cominciai, ma lei m’interruppe all’istante. «Esame di poesia lunedì», disse, e mi strizzò l’occhio.Tre volte, sei fuori.

  La seguii nel retro del negozio. Il Maestro stava in un angolo, discutendo animatamente i meriti dell’album di debutto per la 4AD dei Throwing Muses con un ragazzino brufoloso in T-shirt degli Smiths. “MEAT IS MURDER,” proclamava. “Sì”, pensai, “ma anche provarci con una ragazza uccide”.  «Non ti sei mai chiesta cosa nascondono lassù?» chiesi, appresso alla solita ossessione. No so cosa pensassi ci fosse lì. Ma, ormai che avevo cominciato a chiedermelo, dovevo saperlo. E Lissa sembrava il modo migliore per scoprirlo. Avrebbero potuto chiamare la polizia a causa mia, o peggio, vietarmi l’accesso al negozio. Ma lei era un’impiegata! Cosa le avrebbero fatto, se non dirle “stanne fuori?”  Lei esitò.  «Non lo so».  «Il Maestro è impegnato, non lo noterà neppure», la incoraggiai. «Da’ giusto una sbirciatina».  Rimase sul primo gradino, e il gatto nero le sfrecciò davanti, come per il passaggio. Lei rise.  «Guarda, Blackie lo sa che non dovrei andare lassù».  Si protese verso il basso e carezzò la testa del gatto, ma le soffiò e lei si ritrasse.  «Fa’ in fretta», dissi. «Lui non se ne accorgerà mai. Dai, se hai coraggio».  Sembrò timorosa, ma poi trasse un profondo respiro e si spinse frettolosamente su per le scale.  Mentre saliva i gradini guardavo avanti e indietro da lei al Maestro, assicurandomi che lui non notasse la sua salita furtiva. Ma non dette nemmeno un’occhiata nella nostra direzione.  La guardai dal fondo delle scale. Oggi era in jeans scoloriti, una T-shirt scura e una camicia di flanella. Pensai fosse meravigliosa perfino in abiti “da fattoria”. Delicata, ma non una leziosa. Sveglia, ma non una so-tutto-io. Dovevo riuscire a farla uscire con me in qualche modo.  Mise la mano sul pomello della porta e questa si aprì cigolando, gettando una fetta della luce di mezzogiorno sulle pareti della buia tromba delle scale.  Scomparve dentro la stanza in cima alle scale.  E poi gridò.  Il gatto nero scese le scale passandomi oltre di corsa come un proiettile e balzò in uno dei contenitori di dischi, e io dimenticai di tenere segreta la nostra esplorazione. Chiamai a gran voce il suo nome volteggiando su per le scale.  «Lissa?!»  Nella stanza in cima alle scale si gelava; una finestra era aperta sul vicolo dietro il Record Stop e drappi marrone sbiadito la incorniciavano, mossi nel vento di marzo. C’erano un vecchio banco da scuola di legno al centro della stanza e uno schedario nero d’acciaio accanto. Pile di vecchi LP scivolavano giù dagli angoli della stanza.All’inizio pensai che fosse saltata fuori dalla finestra, ma era aperta solo di qualche centimetro. Di sicuro non poteva averla aperta lei, saltando e chiudendosela alle spalle al momento del salto. Tuttavia, corsi alla finestra e guardai fuori, per vedere il palo del telefono e l’asfalto vuoto di sotto, una Chevy Citation rossa e bianca parcheggiata all’ingresso dell’appartamento di mattoni rossi, un edificio oltre.  Fu solo quando mi voltai che vidi il sangue.  Cremisi e denso. E dilagante.

  Sembrava fluire dalle crepe nel pavimento, aumentando rapidamente dalla misura di poche gocce fino a una pozza che mi tagliò fuori dalla porta.  Il pavimento stava sanguinando e Lissa se n’era andata.  «Lissa?» chiamai, una nota d’isteria nella mia voce.  «Lissa?» sussurrai.  La pozzanghera di sangue si allargò nella stanza, inzuppando le pile di album e macchiando le gambe del bancone. Quando dalla finestra infranta la brezza del tardo inverno soffiò dentro come una bufera rabbrividii. Non sapevo dove girarmi.  «Che diavolo stai facendo quassù?»  Il Maestro era ritto sulla soglia, un metro e novanta di rabbia nero T-shirtata, nero capelluta, l’occhio truce.  Mi rattrappii alla finestra, indicai il pavimento e balbettai.  «Lissa è venuta qua sopra, è stata colpa mia, gliel’ho chiesto io. Ma poi lei ha gridato e io sono salito e lei non era qui e c’è così tanto sangue…», il che, già mentre lo dicevo, vidi che non era vero. Il pavimento era solo legno marrone sporco. Lo stesso, scuro legno massiccio, graffiato da generazioni, prossimo al secolo, che sembrava pavimentare la maggior parte degli edifici attorno all’Università.  Il Maestro non si mosse, mi guardò soltanto con quegli occhi penetranti.  «Lissa non è più stata quassù da un anno», disse a bassa voce. “Lissa non è più da nessuna parte da un anno. Non so quale sia il tuo problema, ragazzo, ma sono stanco di te che razzoli qui in giro, comportandoti stranamente e parlando da solo. Credo che sia meglio se te ne esci da qui. Adesso».  Camminai dove avevo visto il sangue e lasciai il Record Stop.  Non vidi mai più Lissa.  Ma a volte la sento. Nelle urla gutturali di The Dreaming, dietro le campane torturate e gli echi di Filigree & Shadow. Mi ci vollero parecchie visite al negozio per credere che lei se n’era andata. Tentavo di entrare quando il Maestro era impegnato per chiedere dov’era agli altri tizi che lavoravano al negozio, ma quelli mi guardavano perplessi o mi fissavano come fossi pazzo. “Non so di che parli, amico. Nessuna Lissa ha lavorato qui questo semestre”, rispondevano e tornavano a catalogare.

Ci vollero mesi prima che finalmente scoprissi tutta la storia, accidentalmente, durante un corso di arti marziali nell’edificio di Educazione Fisica. Il professore ce la raccontò come un avvertimento per noialtri. Usò lei come un incitamento perché prendessimo A nel suo corso. Ci disse di una studentessa dell’anno prima chiamata Lissa. Di come una sera stesse mettendo via l’incasso della giornata una sera quando uno stronzo le si era avvicinato di soppiatto e l’aveva pugnalata alle spalle con un coltello a serramanico, le aveva preso i soldi e poi la lasciò morire sul nudo pavimento di legno della stanza di sopra del Record Stop sulla Main Street.  Non so cosa pensò quando mi afferrai lo stomaco e corsi fuori dalla classe.  A volte mi sento colpevole per averle fatto affrontare la scena di nuovo. Come se l’avessi uccisa un’altra volta.  Cosa vide quando rientrò nella stanza della sua morte per la prima volta da quell’atto di violenza? Il ricordo del suo omicidio la raggiunse impetuosa come uno sparo? Cosa pensò di me, che l’avevo mandata lì?  Certe notti, al buio, quando non riesco a dormire posso ancora vedere la sua faccia. Mi figuro quelle labbra rosa sottili che parlano di anima e onestà ed espressione. Vedo i suoi occhi come pozze di verità e vita senza fine. A volte piango, sapendo la ragazza che ho perso.  E a volte le sussurro. Spero che lei possa sentire. O forse è meglio se non può.  Desidero stringerla a me così intensamente, ma spero, più di qualunque altra cosa, che la mia sciocca curiosità l’abbia resa libera.
     E così pochi capiscono cosa significa innamorarsi  e così pochi sanno quanto duro è vivere senza di te  Signore, devo essere stato cieco.  This Mortal Coil, I Must Have Been Blind

Profilo dell'AutoreJohn Everson è l'autore dei Covenant (2004), vincitore del Bram Stoker Award,  Sacrifice (2007), The 13th, (2009) and Siren (2010), tutti pubblicati per Leisure Books, con edizioni speciali pubblicate da  Delirium Books, Necro Publications e Bad Moon Books. Negli ultimi 15 anni i suoi racconti sono apparsi in oltre  50 magazines, tra cui  Space & Time, Dark Discoveries e Grue, e in molte antologie, le più recenti: A Dark and Deadly Valley, Cold Flesh, Damned, and Kolchak: The Night Stalker Casebook. Gran parte dei suoi racconti sono stati raccolti  in quattro antologie personali:  Creeptych (Delirium Books 2010), Needles & Sins (Necro Books, 2007), Vigilantes of Love (Twilight Tales, 2003) e Cage of Bones & Other Deadly Obsessions (Delirium Books, 2000).   Letting Go, uno dei racconti pubblicato nell'antologia  Needles & Sins è stato finalista al premio Bram Stoker Award nel 2007 e altri tre racconti delle sue antologie sono state inclusi nella raccolta Honorable Mention List of the annual Year’s Best Fantasy & Horror anthology curata insieme a Ellen Datlow. John Everson è anche l'editor delle antologie Sins of the Sirens (Dark Arts Books, 2008) e In Delirium II (Delirium Books, 2007) e co-editor di Spooks! una antologia di storie di fantasmi (Twilight Tales, 2004). E' tra i fondatori di Dark Arts Books. Sito Web   
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