I FANTASMI DI LUCA FLORES #jazz #musica #lucaflores

Creato il 25 agosto 2013 da Albertomax @albertomassazza

Non ho letto il libro di Veltroni Il disco del mondo, né ho visto il film Piano, solo di Riccardo Milani da esso tratto. Ho conosciuto la musica di Luca Flores grazie a una trasmissione pomeridiana di Radio3, Storyville: ogni settimana, dal lunedì al venerdì, vita e musica di personaggi più o meno noti venivano eviscerati attraverso una drammaturgia sapiente. Erano gli anni a cavallo tra la fine del II e l’inizio del III millennio e grazie a quei radiodrammi conobbi, oltre a Flores, musicisti straordinari come Tim BucKley e Bola de Nieve ed iniziai ad approfondire la conoscenza di Nick Drake, personalità che per molti versi è accomunabile a Flores, ed altri ancora. Aggiungo che non ho una particolare predilezione per la fusion jazz concettuale e metodica del pianista italiano, come del resto per quella di Keith Jarret. Ma Luca Flores aveva due caratteristiche che mi hanno spinto a volerlo ricordare con questo breve racconto: una vena poetica malinconica e cristallina e un percorso tragico interiore che lo ha accompagnato dagli otto ai 39 anni, età in cui si é liberato drammaticamente dei suoi fantasmi, impiccandosi nella sua casa di Montevarchi.

Aveva otto anni, Luca, nel 1964 e viveva in Mozambico. Iolanda, la madre, sempre così attenta a non far pesare gli spostamenti, dovuti al lavoro da geologo del marito, ai quattro figli, per una volta non aveva dato il consueto affettuoso saluto della buonanotte a Luca. Il futuro pianista aveva avuto un atteggiamento sbagliato quel giorno e la madre intendeva, con la sua freddezza, fargliene prendere atto. Una normalissima e universale tattica educativa che sarebbe durata al massimo per qualche altra ora, il giorno dopo. Ma l’indomani non ci fu il tempo per ricomporre quello strappo temporaneo: un incidente stradale, la mattina, durante uno spostamento della famiglia. La madre ebbe la peggio. Morì. Nella psiche ancora labile del riservato ma, fino a quel momento, sereno ragazzino s’insinuò un tarlo: la mamma era morta perché lui l’aveva fatta arrabbiare.

Da quel momento, un buco nero iniziò ad espandersi nella sua psiche, favorito dalla sua naturale riservatezza e tenuto nascosto dalla crescente passione per la musica. Nel 1970 si stabilì a Firenze e si iscrisse al Conservatorio Luigi Cherubini, dedicandosi con diligenza allo studio e all’ascolto dei classici, per avvicinarsi sucessivamente al Jazz. Ottenuto il diploma a pieni voti, iniziò a collaborare con jazzisti italiani e ad insegnare pianoforte presso istituti musicali. Il suo carattere non gli impedì di avere una vita sociale apparentemente normale. Amava circondarsi di amici che consideravano i suoi tormentati silenzi come l’estraniarsi necessario a una mente creativa per concepire la propria musica. D’altra parte, quando non era inghiottito dal suo buco nero, Luca amava ridere e scherzare, lasciava andare la sua ironia arguta e sempre pronta, amava e si faceva amare.

Gli anni ’80 furono fecondi di collaborazioni nazionali e internazionali, con artisti emergenti e affermati, oltre a divenire docente di pianoforte nei prestigiosi seminari estivi di Siena Jazz, dove ebbe tra gli allievi un giovanissimo Stefano Bollani . La sua casa fiorentina, condivisa con Cinzia, la sua fidanzata di allora, divenne un porto di mare, tappa obbligata per qualsiasi musicista passasse per Firenze. In particolare si legò a due eccezionali fiatisti che condivisero con lui una fine tragica e prematura: Massimo Urbani e Chet Baker. Col sax-tenore romano, caratterialmente al suo opposto e proprio per questo complementare, incise nel 1987, Easy to love, con Urbani leader, e Where extremes meet a suo nome. Doveva essere uno spettacolo vedere l’aristocratico Flores, col suo aplomb e il suo impeccabile inglese, fare coppia col proletario Urbani, caciarone e dallo slang che più contaminato non si poteva.

Chet Baker lo scelse per il suo quartetto, insieme all’amico flautista Nicola Stilo. Il volo con cui il trombettista americano pose fine alla sua travagliata esistenza, ad Amsterdam, il 13 maggio del 1988, segnò profondamente Luca. Dalle mezze parole dette all’indomani del suicidio di Chet, trasparve un’assunzione di responsabilità del pianista, convinto di averlo immalinconito col suo stile, spingendolo al suicidio. Di fatto, da allora iniziò un’escalation del suo male oscuro che lo portò ad un autolesionismo punitivo, esploso per la prima volta nell’ottobre del 1991, con il taglio dei polpastrelli e la recisione di un tendine della mano. Due anni dopo, riscaldò un cacciavite e se lo infilò nell’orecchio, rischiando la sordità. Furono anni di terapie d’urto psichiatriche, elettroshock compreso, e di sedativi che gli impedivano di suonare. Luca si trovò a dover scegliere tra la salute e la musica e scelse la morte. Lo trovarono impiccato il 29 marzo 1995 nella casa di Montevarchi che condivideva con Michelle, la compagna dei suoi ultimi anni.

Flores incise 5 album, tra l’86 e il 95, divisi tra standard non solo di jazz (come Angela dell’amato Luigi Tenco, altro suicida) e brani originali, tutti con l’etichetta Splasc(h) Records. Il suo stile metodico e discreto, aperto a tutte le contaminazione ma sempre distillate dalla sua personale vena melodica, faceva apparire semplici le armonie più complesse ed eteree le più infuocate improvvisazioni. Da ricordare, oltre al già citato lavoro del 1987 con la collaborazione di Max Urbani, Sounds and shades of sound (1990) e Love for sale (1991). Il suo ultimo lavoro For those I never Knew, presago già nel titolo, lo registrò dieci giorni prima di suicidarsi. Nei sogni di Luca avrebbe dovuto essere un album ricco di collaborazioni importanti, tra le quali quella con Miriam Makeba, ma a causa del budget ristretto, finì per essere il suo assolo di commiato, suonato come sempre, come se ogni nota fosse l’ultima, fino all’ultima nota.

può interessare CHIEDI CHI ERA MASSIMO URBANI

qui altro su musica



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :