I figli della mezzanotte
Creato il 02 aprile 2013 da Veripaccheri
I figli della mezzanotte - (Midnight's children)
di Deepa Mehta
con Satya Bhabha,, Shahana Goswami, Rajat Kapoor, Shabana Azmi
genere: drammatico
durata, 146
Una volta si sarebbe definito un film d'altri tempi. Oggi, invece,
immersi come siamo in una modernità che mescola vecchio e nuovo, appare
più difficile cercare una definizione omnicomprensiva per definire le
caratteristiche di un film come "I figli della mezzanotte" della regista
indiana Deepa Mehta. Una verifica incerta, dunque, ma con un punto di
partenza sicuro, individuabile nella matrice letteraria, ispirata
dall'omonimo libro di Salman Rushdie, poi rincarata in fase di
realizzazione dalla presenza dello scrittore chiamato a firmare anche la
sceneggiatura. Un imprimatur, quello di Rushdie,
rintracciabile nella voce over che fin dalla prima scena introduce lo
spettatore nel paesaggio esotico e affascinante che fa da sfondo alla
vicenda, e poi, di volta in volta, lo accompagna attraverso gli snodi
di una storia che prende le mosse dalla vigilia dell'indipendenza
dell'India avvenuta il 15 Agosto 1947, per concludersi dopo una serie di
crisi e di rovesci che porteranno alla nascita del Pakistan e del
Bangladesh, territori diventati indipendenti al termine di guerre
sanguinose, con la sconfitta elettorale del primo ministro Indira
Gandhi nel 1977. Un percorso storico ed epocale che la pellicola decide
di ripercorrere con fluvialità romanzesca (ecco un altro lascito di
Rushdie) attraverso le vicende private di tre personaggi, uniti dal
fatto di essere nati allo scoccare dell'ora fatidica in cui la nazione
si liberava dal giogo britannico. Ed è proprio nella prima parte
dell'opera, quella in cui la vicenda si mantiene lontano dalla logica
del resoconto ideologico e politico, per abbracciare l'umanità
tragicomica di Saleem Sinai, il vero protagonista del film, che "I figli
della mezzanotte" esibisce le sue migliori qualità. È qui che il
realismo magico, giustificato dai poteri sovrannaturali di cui i bambini
sono portatori, si sovrappone perfettamente con il pittoresco di uomini
e donne, e con la stravaganza dei loro costumi, in continua
oscillazione tra il conservatorismo di famiglie fortemente patriarcali
rispettose della tradizioni, e un forte spinta innovatrice, trasfigurata
soprattutto nella volontà di trasgredire le regole, o anche di
confermarle, qualora ce ne fosse bisogno - Saleem, Shiva e Parvati
seppur naturalmente "diversi" si muovono all'interno di un contesto
comunque accettato - per rimanere se stessi. Una dialettica che sottende
gli umori di un paese in fermento, attraversato da una voglia di
cambiamento che le differenze e i contrasti tra i vari personaggi
riescono a mettere in campo. Un bottino di simpatia e coinvolgimento che
il film disperde nella seconda parte, quando, dopo che Saleem è
costretto a lasciare l'amata India per andare a vivere in Pakistan,
siamo costretti a fare i conti con la tragedia della guerra,
l'avvicendarsi dei governi e, più in generale, con un almanacco storico
che assomiglia al telaio di Penelope, con il succedersi di finali
continuamente riaperti e poi di nuovo chiusi. Una matassa ingombrante
che si dilunga in inutili ripetizioni e si dimentica di portare avanti
le psicologie dei personaggi, destinati a smettere di essere persone per
diventare la metafora di una nazione in cerca d'identità.
Deepa
Mehta gira con mestiere cercando di sabotare la vocazione letteraria del
film, lavorando sui colori iperreali della fotografia, variando le
angolazioni delle riprese, alternando la camera fissa con quella a mano,
mantenendo fuori campo il sangue e la violenza, sottratte al
voyeurismo dello spettatore e proposte indirettamente nelle conseguenze
che esse comportano sulle vite dei protagonisti. Ma tutto ciò non le
impedisce di impantanarsi nelle pastoie del film a tesi, con una serie
di frasi edificanti e giustificatrici che lasciano fuori qualsiasi
riferimento alle differenze religiose, pur presenti, e inneggiano ad una
pacifismo condito di passaggi buonisti in cui i cattivi non diventano
mai tali. La sequenza finale è suggellata dal trionfo della famiglia
"putativa" (a discapito di quella biologica), che rappresenta nella
maniera più scontata la metafora e anche l'auspicio di un India dove le
differenze, pur presenti, riescono a convivere.
(pubblicata su ondacinema.it)
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