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I figli di Prometeo, pronipoti di Epimeteo

Creato il 05 giugno 2015 da Antonio
I figli di Prometeo, pronipoti di Epimeteo "Di tal rovina niun potria dei Numi
chiaro mostrargli, se non io, lo scampo.
Io questo, e il modo so.
"
Eschilo, Prometeo incatenato.
Il titano Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per farne dono agli uomini è uno dei miti più fecondi della cultura classica. Tra i suoi molteplici significati il mito assume la forma di una metafora della condizione umana che cerca di liberarsi dai vincoli di anànke e riceve la nota punizione. Per la sua violazione Prometeo viene incatenato ai monti del Caucaso, un'aquila gli divorerà il fegato che ogni notte  ricrescerà per essere divorato ancora e ancora[1]. Prometeo portatore del fuoco della scienza e della tecnica paga il pegno della rottura della perenne e inviolabile necessità, pagherà a caro prezzo il tentativo di risolvere ciò che è insolubile persino per Zeus.
Spesso si ricorre al mito di Prometeo per denunciare la crisi dell’uomo occidentale che si presenta nella lacerazione tra la richiesta di fondamenti ai valori umani e il ricorso alla scienza come unica fonte di risposte. Per comprendere questa lacerazione, se c'è, è necessario delineare alcune distinzioni tra sviluppo della scienza classica e procedimento scientifico in generale delineandoli, in estrema sintesi, in un processo storico.
Oggi siamo convinti che l’adozione della metafora meccanicistica sia stata la condizione per il progresso scientifico, occorre però riconoscere che fino alla seconda metà del XVII secolo la tradizione sperimentale era intessuta di tematiche che “vedevano il mondo materiale, anzi la stessa materia, come un luogo di forze sottili e immanenti, una rete dinamica di forze convergenti e contrastanti”[2]. Tale approccio contrastava con la visione dominante di natura trascendente e doveva essere modificato per non minacciare la dottrina teologica del tempo.
Come afferma David Abram, fin dai suoi esordi il programma scientifico ha dovuto “trovare una nuova retorica su cui basarsi, se voleva diventare una pratica rispettabile o addirittura lecita. Doveva liberarsi delle sue origini che risentivano di una concezione del mondo magica e immanente e assumere un nuovo linguaggio, che fosse maggiormente in linea con la dottrina della Chiesa”[3]. A tale esigenza ha dato piena risposta la concezione meccanicistica del mondo introducendo la metafora delle macchine come espressione di una materia inerte che, inevitabilmente, implica la presenza di un creatore e che concepisce la natura come un oggetto su cui esercitare il dominio obbedendo in tal modo al precetto biblico “…riempite la terra; soggiogatela e dominate…”.
Figlio di questo approccio è stato il modello riduzionista per avvicinarsi ai fenomeni naturali, ovvero la presunta capacità di spiegarli attraverso lo studio separato degli elementi che sono stati riconosciuti facenti parte dei fenomeni stessi. Oggi tale approccio non appare più sufficiente per spiegare le dinamiche dei sistemi complessi dei quali facciamo parte sia dal punto di vista naturale che dal punto di vista culturale. A tal proposito potrebbe essere utile parlare delle proprietà auto-organizzative di tali sistemi senza ricorrere ad alcun tipo di trascendenza che li preceda ma che, al più, implica una trascendenza a posteriori, ma qui imboccherei un percorso impervio per queste considerazioni. In ogni caso è evidente che per una completa conoscenza dei fenomeni naturali e culturali è necessario abbracciare una visione d’insieme, olistica, che in qualche misura riconosca l’irriducibilità del tutto agli elementi che lo costituiscono, o che riteniamo lo costituiscano. Nei primi anni ’20 del secolo scorso, il filosofo Charlie Broad coniò la definizione di “proprietà emergenti” per quelle proprietà che emergono ad un certo livello di complessità ma che non esistono a livelli inferiori[4]. In definitiva ciò che attualmente appare evidente è una sorta di ritorno alle origini dell’approccio scientifico, ovvero il riconoscimento di una partecipazione interattiva e di reciprocità tra l’uomo e la natura materiale.
Il bisogno di significati e valori dell’uomo non può essere pienamente compreso in un contesto esclusivamente scientifico e secondo un approccio meramente positivista e riduzionista. E’ necessario riconoscere i limiti di tale approccio ma è anche necessario riconoscere che in molti casi a tale approccio sono stati assegnati ruoli e compiti che non sono pertinenti con il primitivo progetto scientifico, che può essere fatto risalire al periodo ellenistico[5], che non era e non poteva essere il dominio della natura ma la sua comprensione, nel senso di penetrare profondamente con l’intelletto, sentire intimamente la relazione tra l’uomo e ciò che lo circonda[6].
In ogni caso, senza voler entrare nel merito del discorso scientifico e delle sue più che evidenti degenerazioni tecniciste, è necessario riconoscere alcuni elementi fondamentali relativi al metodo stesso. Quella che può essere riconosciuta come una sorta di autocritica della scienza, il cui inizio possiamo far risalire agli anni trenta del secolo scorso[7], è il risultato dello stesso metodo scientifico. La revisione delle precedenti assunzioni positiviste è possibile solo nel contesto definito dal metodo scientifico: una continua e inarrestabile revisione, verifica e falsificazione delle affermazioni precedenti.
Detto questo occorre riconoscere che il linguaggio scientifico, data la sua natura immanente, si muove solo in un contesto definito da limiti rigorosamente tracciati. Walter Chiari raccontava un'illuminante apologo che a mio avviso descrive il metodo scientifico, così come io lo vedo: un uomo perde il suo portafoglio e lo cerca sotto un lampione, viene aiutato da un amico che all'uomo dove abbia perso il portafolgio. L’uomo risponde “100 metri più in là, nella zona buia.” – “Ma allora, perché lo cerchiamo qui?” chiede l’amico. La risposta è “Perché qui c’è luce!”. Questa è anche la risposta che il ricercatore onesto deve dare, una risposta che richiede coraggio e umiltà. La scienza cerca dove c’è luce, consapevole di non poter fare altro.
Il terremoto di Copernico che sposta la terra dal centro dell'universo in cui gli uomini la vogliono, lo stravolgimento del ruolo della scimmia sapiens a opera di Darwin, lo scardinamento dei concetti di tempo e spazio di Einstein, il riconoscimento dell’estrema sensibilità delle condizioni iniziali nella teoria del caos, il principio di indeterminazione delle misure fisiche nel mondo subatomico, l'esistenza di enunciati indimostrabili in una teoria matematica coerente, l'impossibilità di provare la coerenza di una teoria matematica dal suo interno, la consapevolezza di dover fare i conti con la finitezza delle risorse del pianeta, sono tutte espressioni e risultati di un processo di continua demolizione delle antiche certezze che il metodo scientifico ha reso possibile oltre che inevitabile.
A differenza di altre espressioni del pensiero umano la scienza ha tra i suoi principi la continua revisione dei propri risultati, dei “paradigmi” che contribuisce a creare e, in definitiva, dei suoi stessi principi, ciò può sembrare tautologico agli occhi di pensatori ancora esposti agli echi della scolastica ma non quanto il concepire significativo un processo naturale per il fatto di aver prodotto esseri che cercano significati, o qualunque altro tormento te(le)ologico. I limiti della conoscenza, già enunciati da Kant, tramite l’approccio scientifico sono entrati di diritto nel novero delle possibilità umane, sebbene qualche salvataggio metafisico sia sempre possibile, grazie al cielo…e a Kant!
Data la schizofrenica distanza tra quello che è pur sempre un costrutto umano, come il procedimento scientifico, e la particolare predilezione della nostra specie a costruire risposte facili per quesiti difficili, ho l’impressione che se l’antico Prometeo greco è stato incatenato per aver rivelato il fuoco agli uomini, il moderno Prometeo è incatenato perché non fornisce le risposte desiderate alle domande che gli vengono poste, domande peraltro a cui Prometeo non sa rispondere. Se la fiamma di Prometeo non ci fa trovare quello che abbiamo perso, sono poco convinto che la soluzione sia spegnerla!
Forse questo è un aspetto fondamentale della crisi che l’uomo occidentale vive e di cui ritiene responsabile la scienza. Prometeo può fornire risposte a poche, limitate domande ma a volte fornisce risposte non desiderate e le domande che gli si possono rivolgere non sono entusiasmanti come quelle che si possono rivolgere a un profeta o a un santo. Per non dire che in molti casi l’unica risposta che la scienza può onestamente fornire in un preciso momento è il silenzio. D'altra parte quando gli scienziati avvisano anzitempo dei pericoli del nostro sviluppo, penso ai cambiamenti climatici e alla necessità di cambiare direzione alle nostre scelte politiche e economiche, non sono molti quelli disponibili all'ascolto di queste Cassandre che predicano sventure. Alla fine del dramma si scoprirà che non è solo l'eredità di Prometeo ad averci portato al declino, ma quando il coro canterà le ultime battute servirà poco discettare.
A questo punto è opportuno spendere qualche parola sul termine crisi, etimologicamente crisi è “scelta”, “decisione”. Oggi usiamo il termine per indicare una perturbazione, una rottura di qualcosa che prima era unito, consolidato, stabilito. Qualcosa che è dato per scontato e che diventa altro o molteplice rispetto alla primitiva unicità, determina uno stato critico della nostra conoscenza e nella nostra coscienza perché ci pone di fronte ad una scelta.
In questo contesto il termine crisi andrebbe stemperato per ridurre, in alcuni casi, l’accezione drammatica che può essere ricondotta a uno stato di ansietà determinato dall’esigenza disattesa di avere risposte uniche e definitive. La scienza ha assimilato questo elemento critico nel suo linguaggio e il cambiamento o la sostituzione dei paradigmi non è qualcosa di sconvolgente e terribile ma è anzi l’elemento principale del suo stesso operare[8]. L’univocità delle risposte e i risultati dell'approccio deterministico hanno lasciato il campo a una visione probabilistica della realtà. Oggi più che mai la velocità con cui “tutto deve cambiare perché nulla cambi” (negli ambienti evoluzionistici si è preferita la regina rossa di Lewis al principe Tancredi del Lampedusa) è spasmodica e sempre meno in sintonia con le potenzialità di adattamento, fisiologiche e psicologiche, proprie di ogni individuo e della stessa società.
Non è possibile negare che ciò determini uno stato di disagio ma è necessario stabilire un nesso tra questo disagio e la confusione esistente tra il desiderio di un senso escatologico dell’umanità, che la scienza non può dare, e il contenuto che emerge dall’indagine fenomenica che a volte può sembrare perfino banale se confrontato con le più alte aspirazioni, o ambizioni, dell’intelletto umano. Che la scienza non possa, e non debba, fornire risposte di carattere assiologico è argomento filosoficamente stimolante, almeno da quando abbiamo cominciato a pensare alla differenza tra descrizione e prescrizione. Che questo sia dovuto a una differenza ontologica tra scienza, filosofia e religione è rivelatore di un confinamento in compartimenti separati delle diverse espressioni del pensiero. Una compartimentazione foriera, questa sì, della lacerazione di cui si è detto.
Secondo Maurice Merleau-Ponty “il ricorso alla scienza non ha bisogno di essere giustificato: qualsiasi concezione ci si possa fare della filosofia, essa ha il compito di illuminare l’esperienza e la scienza è un settore della nostra esperienza… è impossibile rifiutarla in modo preconcetto col pretesto che essa lavora guidata da certi pregiudizi ontologici: se si tratta di pregiudizi la scienza stessa, nel suo vagabondaggio attraverso l’essere, troverà sicuramente l’occasione di rifiutarli. L’essere si apre un varco attraverso la scienza come attraverso ogni vita individuale. Nell’interrogare la scienza, la filosofia sarà favorita nell’incontrare certe articolazioni dell’essere che più difficilmente potrebbe decifrare in altro modo.”[9] In tal senso è utile citare le ultime parole del “La nuova alleanza” di Prigogine e Stengers: “E’ ormai tempo per nuove alleanze, alleanze da sempre annodate, per tanto tempo misconosciute, tra la storia degli uomini, delle loro società, dei loro saperi e l’avventura esploratrice della natura.”[10]
"Tutto ho già visto, ponderato ho tutto."
Eschilo, Prometeo incatenato.
[1] Eschilo, Prometeo incatenato, In Le Tragedie, Orsa Maggiore, 1989.
[2] Abram David, Conseguenze epistemologiche dell’ipotesi Gaia, p. 187-207. In: L’ipotesi Gaia, a cura di P. Bunyard, E. Goldsmith. RED Edizioni, 1992.
[3] Abram David, op. cit., 191.
[4] Citato in: Capra Fritjof, La rete della vita – Una nuova visione della natura e della scienza. R.C.S. Libri & Grandi Opere, 1997, p. 39.
[5] Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, 2006.
[6] Quelli che, a volte troppo superficialmente, sono considerati limiti della scienza sono fondamenti del discorso scientifico come la rinuncia a rispondere al “perché?” per rispondere al “come?”. Per essere precisi la scienza rinuncia ai perché metafisici. Cfr. M. D’Eramo, L’abisso non sbadiglia più, (pp. 19-69). In: Gli ordini del caos. AA.VV., manifestolibri, 2000.
[7] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendetale. Per un sapere umanistico. Net, 2002. Ma si pensi anche al contributo di K. Gödel nella demolizione delle certezze della matematica.
[8] T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1979.
[10] Citato in: Prigogine Ilya, Stengers Isabelle, La nuova alleanza – Metamorfosi della scienza. Einaudi, 1999, p. 283.
[11] Prigogine Ilya, Stengers Isabelle, op. cit. p. 288.
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PS - Fatti salvi alcuni ritocchi e correzioni queste note sono state scritte qualche anno fa, prima di aprire il blog e soprattutto prima di leggere un libro che non può mancare tra i consigli di lettura:
Marcello Cini, Il supermarket di Prometeo. La scienza nell'era dell'economia della conoscenza. Codice edizioni, 2006.

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