Ai David di Donatello della ‘topa meravigliosa’ non ci son stati solo i guai combinati dallo sciagiurato conduttore Paolo Ruffini. Hanno anche premiato robucce come La mafia solo d’estate trascurando nuovi film italiani che hanno smosso le acque stagnanti del nostro cinema. La lista dei dimenticati comincia con TIR di Alberto Fasulo.
Branko Završan è Branko (ecco, un altro clamoroso sconfinamento tra realtà e finzione-rappresentazione), insegnante sloveno che per guadagnare di più e meglio molla la scuola, sicché eccolo da intellettuale trasformarsi in muscolare driver di Tir su e giù per l’Europa, ma preferibilmente lungo l’asse est-ovest Spagna-Francia-Nord Italia-Slovenia-Ungheria. Lo conosciamo mentre in cabina fa coppia con il copilota, il connazionale Maki, e son brandelli di conversazione, e soste che si trasformano in piccoli accampamenti, parcheggi lungo muri graffitati dove ci si lava a pezzi con quel po’ d’acqua dei serbatoi e si cucina acrobaticamente su minuscoli fuochi, e si pensa con malinconia a quelli che stanno a casa, la moglie, i figli. Poi, per ordini superiori del boss – gli ordini arrivano impersonalmente attraverso telefonate e messaggi in codice – i due son costretti a separararsi, ognuno da solo sul suo camion: “da oggi non siamo più marito e moglie”, commenta Branko. La moglie, quella vera, c’è, e si fa sentire per voce, per telefono, e vorrebbe che lui tornasse a casa, tornasse a insegnare, che importa prendere meno soldi (B. da camionista in Italia guadagna tre-quattro volte che da prof in una scuola slovena), l’importante è stare insieme, e insomma siamo al solito bovarismo di molte mogli che si senton sole e trascurate. Fasulo è abile nel tessere una narrazione attraverso la pur evidente scarsità di elementi, non ci annoia mai, riesce miracolosamente a inghiottirci nel flusso, nello scorrere dei giorni, delle ore, del suo protagonista. Ci scaglia con lui nella cabina, il centro di tutto il film, astronave da cui il solitario Branko osserva quel cosmo strano, apparentemente anonimo e sterile e asettico eppure percorso da infinite vibrazioni, che è il mondo dei driver. Strade e strade, aree di servizio, camion su camion, container, e quei non luoghi che sono i luoghi della logistica, in un panorama di macchine e uomini-robot addetti al carico-scarico fascinosamente straniante, come in uno sci-fi on the road. Con un che, anzi molto, che pare venuto dallo spettrale Deserto rosso di Antonioni. Il mondo visto da un finestrino, dove la geografia perde di senso e si fa astratta, anonima, inafferrabile, fungibile, puro geroglifico sputato da un navigatore, dove Francia Italia Spagna Ungheria si confondono in giorni e notti inesorabilmente uguali. La suggestione, la meraviglia di TIR, è che ci fa entrare nei percorsi e anche nelle fredde logiche delle merci, nei flussi incessanti di beni che alimentano e soddisfano i nostri bisogni, ma dei quali niente sappiamo. Scivoliamo con Branko in compagnia di pomodori patate mele maiali e intanto ci ritroviamo immersi in un costante delirio, in una percezione alterata, nella veglia febbrile di chi afferra e perde e ritrova brandelli di realtà, di chi non ha più radici ed è perennemente in circolo e movimento, anche se la sensazione è di muoversi in un labirinto e di non spostarsi mai davvero, in una sorta di coazione all’eterno ritorno. Con una sequenza formidabile che traduce questo senso di sperdimento, il passaggio di Branko attraverso il dedalo dei TIR ammassati dei camionisti in sciopero. Secondo Fasulo, Branko funge da metafora dell’uomo contemporaneo costretto a una continua transumanza, alla precarietà. Ma il protagonista di TIR credo abbia più a che fare con l’archetipo di Ulisse e con la sua odissea, con la sua lontananza coatta da Itaca e l’ossessione di tornarci. Branko vaga senza mai un vero approdo, e il sospetto (ce l’avevamo già con Ulisse, del resto) è che sia questo quanto davvero vuole e il senso del suo essere, lo sradicamento, il nomadismo, e che non abbia nessuna voglia di tornarsene a casa dalla sua Peneleope. TIR, non so quanto intenzionalmente da parte del suo autore, finisce con l’essere il gran ritratto di un uomo-monade che ama la solitudine, di un eremita del nostro tempo la cui cabina di pilotaggio diventa l’equivalente della colonna degli antichi stiliti. C’è un che di ascetico e di monacale in Branko, di volontaria rinuncia al mondo e alle sue pompe per immergersi, attraverso il ritiro e la separatezza, nella ricerca dell’assoluto. Un percorso zen o, se preferite, di santità, di depurazione dalle cose mondane e di immersione nel trascendente. Qualcosa che gli permette di sopportare anche quella moglie così pressante e quel figlio stronzo che, per comprarsi un nuovo appartamento, non si fa il minimo scrupolo a spogliarlo di tutti i risparmi. TIR funziona meglio nell’astrazione, quando meno ci dice di Branko e ce lo mostra solo come uomo vagante in quella galassia di asfalto e centri logistici, per così dire de-psicologizzato e anche de-narrativizzato (e son momenti che fan venire in mente sia il remoto Driver di Walter Hill che il Drive di Refn). La lontananza dalla famiglia e dagli affetti, tema che mi è parso stia molto a cuore al regista, finisce con l’essere il dato meno interessante del film, il più banalizzante, ed è questa zavorra psicologistica e sociologistica a impedire a TIR di ergersi a opera assoluta. Se Fasulo avesse ulteriormente scarnificato il suo racconto, se avesse accentuato l’impassibilità fenomenologica con cui registra i movimenti anche interiori del suo Branko, se solo si fosse liberato di ogni quisquilia familiar-sentimentale (compresa la figura del collega Maki che molla tutto pur di tornare a casa dal figlio malato), avremmo avuto qualcosa di molto vicino al capolavoro. Non è così, ma va bene lo stesso. Qualche parola sull’attore, su Branko Završan, meraviglioso nel cancellare ogni confine tra vita e finzione e nel trasmetterci la mitezza e insieme la resistenza del suo personaggio, e il suo strano percorso ascetico per mezzo delle ruote di un camion. Di una bellezza e una luminosità, anche, da vero santo popolare. (“Ma questo Branko è un santo!”, ha esclamato difatti Tatti Sanguineti durante il Q&A col regista seguito alla proiezione.)
I film belli che i David di Donatello hanno dimenticato/1: TIR
Creato il 12 giugno 2014 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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