Realizzato in ventuno giorni con attori non professionisti, Elephant è liberamente ispirato al massacro avvenuto alla Columbine High School nel 1999, quando due studenti armati si introdussero nell’edificio ed aprirono il fuoco sui propri compagni e sugli insegnanti. Il bilancio fu di tredici morti e ventiquattro feriti. L’eclettico Gus Van Sant, grande cineasta indipendente da sempre attento al mondo giovanile, rimane fedele alla propria poetica e ci offre uno spaccato privo di retorica sulla quotidianità, solo apparentemente tranquilla, di un gruppo di ragazzi di un liceo di Portland. Attraverso raffinati piani sequenza che seguono la medesima vicenda dai diversi punti di vista di alcuni studenti, Elephant, preceduto da Gerry (2002) e seguito da Last Days (2005) nella cosiddetta “Trilogia della Morte”, si presenta come un’opera pura e minimale, di suggestiva bellezza. Lo straordinario rigore della messinscena, in cui agli attori è stato dato ampio margine di improvvisazione a favore di un’autentica spontaneità, non pregiudica slanci poetici, sottolineati dal contrappunto musicale di Beethoven, nè soluzioni di grande finezza stilistica. Van Sant, colto e sensibile, si muove su un terreno che conosce bene. La giuria del Festival di Cannes, per assegnare al film sia la Palma d’Oro sia il premio alla miglior regia, dovette chiedere una deroga al regolamento, che vietava di attribuire entrambi i premi alla stessa opera. Vorrà pur dire qualcosa.
Per riflettere.