Avete capito bene: la storia è decisamente autobiografica e la regista ha ricostruito la sua personale memoria giovanile, senza però chiarire (al momento dell’incontro con il pubblico a fine proiezione) se la famosa telefonata ci sia stata veramente: quello che sentiamo è un dialogo solo acustico, tra la stessa Engberg e un attore che interpreta Vincent. Il che innesca un primo dubbio sulla bontà del film: è accettabile, da un punto di vista morale, che un autore racconti una storia così intima (comprendente particolari altrettanto privati dei propri famigliari), senza poi peraltro avere il coraggio di aprirsi fino in fondo con il pubblico? In realtà, quello che sembra appassionare – anzi, ossessionare - la regista è il concetto di memoria, la possibilità di rendere eterni dei ricordi altrimenti destinati a venir meno con il passare del tempo.
Il vero difetto del film è la scelta di affidare l’intera ricostruzione a un dialogo fuori campo: le immagini che si accompagnano alle parole sono semplici riprese amatoriali effettuate di recente o ai tempi dei fatti narrati, alternate a immagini di repertorio dell’epoca e ad alcuni spezzoni del primo corto girato dalla Engberg. Tutto molto interessante, se non fosse che le suddette immagini sono di qualità talmente infima da essere spesso inguardabili e per giunta risultano giustapposte senza una vera logica, spesso prive di alcun legame con le parole che sentiamo in sottofondo. In questa sorta di esperimento visivo a metà tra la videoinstallazione e la confessione personale, restano una bella colonna sonora e un’idea di fondo innovativa che, però, se sviluppata in modo così approssimativo, diventa un mero esercizio intellettualistico, decisamente irritante.
Voto: 2/4