Un uomo, una donna, una bambina. Una lucida e dolorosa ricognizione sulla degenerazione dei rapporti familiari. L’apologo che compone Gröning si muove in direzione ostinata e contraria rispetto alla via più facile che il pubblico vorrebbe trovarsi di fronte agli occhi. La ripetitività dei piccoli gesti quotidiani è messa in immagini con coraggio, frammentando la narrazione in 59 piccoli capitoli (meticolosamente scanditi da un inizio e da una fine) apparentemente slegati tra loro, volti ad una descrizione d’insieme di taglio impressionista. La calma apparente che trasmettono le azioni dei personaggi è minata da una sotterranea violenza latente, che solo sporadicamente esplode in litigi e scontri fisici tanto realistici quanto disturbanti.
La camera fissa che indugia su corpi e oggetti dilatando i tempi a dismisura, permette al regista di esaltare una suggestiva “poetica del silenzio” sostenuta con coraggio, riducendo al minimo i dialoghi e rinunciando alla colonna sonora. Una scelta stilistica così radicale, unita ad una sceneggiatura che rifiuta uno sviluppo lineare della vicenda, costringe lo spettatore a confrontarsi con un’opera volutamente ostica e respingente. Una volta superata la legittima diffidenza iniziale, è però impossibile non lasciarsi conquistare dall’atmosfera rarefatta e opprimente della pellicola, i cui ascendenti nordici nell’analisi del rapporto di coppia sono molto evidenti.
Alexandra Finder e David Zimmerschied sono perfetti nel mettere in luce i lati più oscuri della psiche umana, in cui i legami familiari fungono da detonatore per un devastante quanto inaspettato crescendo di impulsi violenti. Qualche fastidiosa pretesa autoriale di troppo impedisce però il pieno e completo apprezzamento di un film che si candida, in ogni caso, a rimanere uno dei titoli più interessanti di tutto il concorso.
Voto: 2,5/4