Liberamente ispirato al romanzo Tarantula di Thierry Jonquet, il diciottesimo lungometraggio del cineasta di Calzada de Calatrava è un prezioso tassello nella filmografia di un regista che negli anni ha saputo rinnovarsi pur rimanendo sempre fedele alla propria poetica.
Da quando sua moglie è morta, arsa viva, in un incidente d’auto, Robert Ledgard (Antonio Banderas), chirurgo plastico, dedica la vita alle ricerche su una pelle artificiale. In un inaspettato balletto di complici e cavie, rimarrà prigioniero delle proprie ossessioni. Avvincente cocktail di generi, che mescola abilmente thriller, melodramma, horror e grottesco, La pelle che abito è un punto di arrivo (e, allo stesso tempo, di partenza) della cifra stilistica perseguita da Almodóvar negli anni 2000: ad una strenua eleganza formale, si affianca una linea narrativa tortuosa e sfaccettata, che compone un puzzle di innegabile fascino. Attraverso una messinscena algida e manierista, il desiderio di possesso, i cambi di sesso (ma non di identità), la negazione del libero arbitrio, diventano temi che racchiudono tutte le pulsioni primigenie del cinema del cineasta iberico. Film di attori in cui gli spazi chiusi (la fastosa villa/clinica El Cigarral) sono veri e propri co-protagonisti. Il mito gotico di Frankenstein, più che un oggetto di indagine o di riflessione, è un semplice contenitore funzionale ad una vicenda sottilmente cinéphile con rimandi a Hitchcock, Lang e Franju. Fotografia: José Luis Alcaine. Musiche: Alberto Iglesias. Costumi: Paco Delgado e Jean-Paul Gaultier.
Affascinante.