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Creato il 28 ottobre 2013 da Ifilms
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Things only seem to magic. There's no real magic. There's no real magic ever.

Martin

Il mostro, il mostro umano, il replicante, l’alieno, l’ultracorpo: figure topiche dell’horror e della fantascienza, che si legano spesso a un mistero identitario. Chi o che cos’è che realmente dobbiamo temere? Dove sta veramente l’Alterità della minaccia? Si tratta di un essere umano, di un robot, di un alieno?

In L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Bodysnatchers, Don Siegel, 1956), ad esempio, il protagonista, dopo aver combattuto contro gli alieni che “possiedono” i corpi dei suoi concittadini, trasformandosi in “doppelgaenger” malvagi, nell’ultimo fotogramma del film corre verso la macchina da presa urlando “you’re next”. Così facendo riesce a instillare nello spettatore non solo il dubbio di essere davanti a un doppio alieno del dottore, ma di stare per perdere la propria stessa identità.

Un altro celebre esempio di identità ambigua è sicuramente Blade Runner (Id., Ridley Scott, 1982), in cui lo spettatore è portato a dubitare che il protagonista, il cacciatore di replicanti Rick Deckard, sia in realtà egli stesso un replicante. Questo suggerimento è particolarmente evidente nella versione “director’s cut” presentata nel 1993, in cui Deckard sogna un unicorno, dimostrando in questo modo di avere una memoria artificiale e di essere un androide. Alla fine, quando Deckard fugge con la sua fidanzata replicante, il mistero della sua identità rimane irrisolto, così come quello della “data di scadenza” di lei.

In generale, l’alternanza non esplicitata tra la realtà e la sua alterazione artificiale è spesso presente nella fantascienza e in molti casi il giudizio dello spettatore viene lasciato al proprio istinto, senza possibilità di stabilire un’interpretazione univoca, non solo circa la natura del protagonista della narrazione, ma anche sulla sua contestualizzazione dimensionale. Questo, ad esempio, è il caso di Videodrome (Id., David Cronenberg, 1983), in cui al pubblico è lasciato l’onere di decidere se Max Renn stia realmente vivendo una fusione fisica con una forma alternativa di tecnologia, trasformandosi in qualcosa di esplicitamente Altro, o se sia semplicemente preda di stati psicotici indotti da sostanze chimiche, o forse da un cancro al cervello. In un altro film di Cronenberg, eXistenZ (Id., 1999) l’ambiguità tra realtà e virtualità è risolta unicamente alla fine, quando viene rivelato che tutte le avventure vissute dai protagonisti sono solo il risultato di un gioco interattivo: fino all’ultimo secondo, lo spettatore è portato a ritenere che tutte le esperienze mostrate siano state reali. Ma la conclusione pone ancora il dubbio che anche l’ultimissima sequenza sia ambientata in una realtà virtuale.

Un meccanismo simile è spesso presente nel thriller, dove l’assassino può celarsi sotto i panni innocenti di un vicino timido e gentile: dalle opere di Alfred Hitchcock, in primis Psycho (Id., 1960), ad Amabili resti (Lovely Bones, Peter Jackson, 2010), la storia è piena di esempi in questo senso. Viceversa, il protagonista può essere accusato di aver commesso un omicidio per il quale si professa innocente, come ne Il fuggitivo (The Fugitive, Andrew Davis, 1993), disorientando ancora una volta lo spettatore, che deve attendere il finale per scoprire la soluzione al mistero identitario.

Nell’horror classico, invece, l’elemento di alterità (declinata come mostruosità o “freakness”) è generalmente situato con molta precisione, per lo spettatore, almeno. Infatti, se il “monstrum” può nascondersi sotto apparenze umane e ingannare i co-protagonisti (come accade ad esempio nei film di licantropi o in quelli di Jekill e Hyde), allo spettatore viene rivelata fin dall’inizio l’identità del mostro. Per questo motivo Martin (Id., 1978) di George A. Romero costituisce un’interessante eccezione: la vera identità del protagonista, infatti, non viene mai svelata, nemmeno alla fine. C’è da dire che, fin dagli inizi, Romero si presenta come un autore particolarmente interessato alla riflessione sull’identità “labile” del mostro, che viene declinato secondo diversi paradigmi. Specialmente nel ciclo dedicato agli zombie, il regista offre una prospettiva autoriale unica sulla questione, ma è con il poco noto, e nondimeno importante, Martin che la sua riflessione si fa estrema, perché la soluzione non viene mai suggerita, né tantomeno esplicitata, ma lasciata completamente alla sensibilità dello spettatore.

Morti viventi e vivi morenti

La confusione sull’identità del “vero” mostro è, come abbiamo accennato, un vero e proprio marchio di fabbrica per George A. Romero, a partire da La notte dei morti viventi (The Night of the Living Dead, 1968): se è chiaro che sono gli zombie la minaccia inumana (o, per meglio dire, ex-umana), è altrettanto evidente che i protagonisti vivono a loro volta un’esperienza di inumanità che conduce a un finale negativo. “The human survivors never unite to defeat the zombies. They are constantly at each other's throats and attempt to devour each other in an ironically metaphorical version of the outside assault by their living dead opponents. Indeed, the dead appear more united than the living in terms of their concentrated focus upon a specific aim”[1].

In altre parole, gli zombie sono gli unici a formare una vera comunità, per quanto priva di cervello e intelligenza, e a riunirsi intorno a uno scopo unitario: mangiare i viventi. Gli umani, dal loro canto, non riescono a diventare un gruppo, nemmeno di fronte all’obiettivo supremo della sopravvivenza.

I viventi diventano perciò gli outsiders, gli emarginati della situazione, Altri rispetto alla compatta maggioranza formata dagli zombi: in un certo senso, diventano i veri mostri, intendendo con questo termine “elementi di non conformità”. Lo stesso meccanismo funziona più o meno per L’alba dei morti viventi (Dawn of the Dead, 1978), in cui l’accento è posto ancora più spiccatamente sulla critica sociopolitica del consumo di massa: gli zombie che attaccano il centro commerciale assomigliano esplicitamente alla folla accecata dall’assurda sete di shopping che affligge la società occidentale contemporanea, una grottesca e inquietante parodia della nostra identità di acquirenti compulsivi in periodo di saldi.

È con il terzo capitolo della trilogia dei morti viventi, comunque, che Romero renderà più esplicita la sua volontà di confondere lo spettatore sulla vera identità del mostro: in Il giorno dei morti viventi (Day of the Dead, 1985) il personaggio di Bub inviterà lo spettatore a formulare una riflessione più profonda sulla natura del male. Infatti Bub, il primo non-morto a ricevere un nome che lo qualifichi come individuo (non) vivente, mostra consistenti tracce di una coscienza, imparando a compiere piccoli gesti e stabilendo una sorta di relazione affettiva con il proprio educatore, il Dottor Logan, che qui rappresenta una versione contemporanea, e un po’schizoide, di Frankenstein.

Bub dimostra la persistenza di alcuni brandelli di memoria umana, riconoscendo oggetti e replicando alcuni comportamenti sociali stereotipati, ma anche una reminescenza di sentimenti, quando si vendica del crudele Capitano Rhodes (più mostruoso e inumano dei mostri stessi), dopo l’omicidio del Dottor Logan. Ma il segnale più importante è dato dal fatto che Bub, sconvolto dalla vista degli altri non-morti fatti a pezzi e vivisezionati, si riconosca quale membro di una razza, o comunità, affermando in questo modo la propria identità.

Siamo davvero sicuri che gli zombie siano creature non intelligenti, non senzienti, da distruggere senza pietà? O forse, piuttosto, siamo noi i veri mostri che, dopo aver creato un olocausto biologico, sappiamo rispondere alla minaccia solo con altra violenza, diretta non solo verso i non-morti, ma anche, e più significativamente, verso noi stessi.

Romero torna a riflettere su questi temi molto più tardi, con La terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005), in cui gli zombie sono isolati in una sorta di ghetto e trattati come oggetti da un’umanità totalmente privata di ogni valore morale: nelle strade si uccide e rapina senza nemmeno accorgersi che i morti stanno diventando intelligenti e stanno cercando di ricostruire la propria versione di una società civile. Il regista approfondisce la questione socio-politica già affrontata con le opere precedenti ritraendo una classe dominante fatta di individui avidi, ottusi, a loro volta prigionieri inconsapevoli di un ghetto dorato, mentre gli ultimi lacerti di dignità, gli unici che meritano di sopravvivere, sono un branco di freaks: una prostituta, un ladro, un uomo brutalmente sfigurato. Ancora una volta, è difficile stabilire chi sia il vero mostro.

In Survival of the Dead (Id.,2009) il dualismo viene costruito tra coloro che vogliono distruggere I morti viventi e coloro che vogliono educarli a una dieta più salutare, insegnandogli a mangiare la carne animale, anziché umana, per preservare la permanenza della loro essenza di ex esseri viventi. Qui la questione, simile a quella posta ne Il giorno dei morti viventi, è: gli zombi sono solo esseri mostruosi o è ancora possibile trovare in loro un residuo di umanità? È giusto distruggerli come demoni o dobbiamo considerare la loro identità di (ex) individui?

Tralasciando le implicazioni politiche di una meditazione molto contemporanea, Romero sembra applicare un paradigma da sempre insito nell’horror: la percezione spettatoriale della realtà viene messa alla prova e il ruolo del mostro è meno prevedibile di quanto potrebbe sembrare. Ma il dubbio instillato nel pubblico riguarda una concezione piuttosto metaforica di mostruosità: pur essendo certi dell’“alterità” del mostro, possiamo ancora rinegoziare il suo ruolo ai margini della comunità “normale” e la sua relazione con essa. In ogni caso, la sua natura rimane generalmente diversa, almeno per lo spettatore: sappiamo che gli zombie sono cadaveri viventi risultato di qualche mutazione biologica. Che sia giusto o sbagliato combatterli, che conservino o meno una traccia di coscienza, che sia nostra la responsabilità di aver creato una tale forma di abominevole incarnazione del male: possiamo porci queste domande, ma la natura dei morti viventi è evidentemente diversa dalla nostra.

Lo stesso accade in tutte le variazioni sul tema Frankenstein: dalle molte versioni, più o meno fedeli, del romanzo di Mary Shelley, a tutte quelle opere in cui qualcosa creato dall’uomo diventa una minaccia per il suo genere. Da Babykiller (It's Alive!, Larry Cohen, 1974), in cui l’assunzione di una medicina causa a una giovane mamma un’orribile mutazione del feto, che nasce notato di zanne, artigli e insaziabile voglia di uccidere, a un altro film di Romero, Monkey ShinesEsperimento nel terrore (Monkey Shines - An Experiment in Fear, 1988) in cui una scimmia contaminata con cellule cerebrali umane si trasforma da amorevole assistente di un giovane paraplegico a ossessiva assassina di tutti coloro che si frappongono alla loro “relazione”. Il tema ricorrente è quello dello scienziato che, sfidando le leggi della natura, crea qualcosa di violento e distruttivo, ma non responsabile della propria natura malvagia (“non sono cattiva, è che mi disegnano così”): lo spettatore perciò può decidere se il mostro diventi o meno una vittima e se il vero mostro sia incarnato dalla sete di conoscenza (o denaro) che anima le ricerche dell’uomo.

L’esempio più significativo in tale senso è rappresentato sicuramente da La Mosca (The Fly, David Cronenberg, 1986), dove l’ambizioso scienziato causa direttamente la propria distruzione, riunendo in un unico personaggio il demiurgo, il mostro e la vittima.

Per questo motivo Martin è un modello di studio esemplare: anche qui è fortemente presente il topos del “mostro-vittima”, ma lo spettatore non riesce ad afferrare la vera natura del protagonista. D’altra parte, se invece di un vampiro si trattasse di un ragazzino psicopatico, il suo ruolo di vittima di una società cieca sarebbe ancora più drammatico: il regista, però, non concede alcuna possibilità di dirimere la questione.

Perciò, forse, ciò che Romero vorrebbe fare con Martin è rendere ancora più radicale la riflessione sull’ambiguità della mostruosità che caratterizza il suo “ciclo zombie”: il fatto stesso che non possiamo veramente comprendere la natura del ragazzo può solo significare che essa non è rilevante ai fini della sua relazione con il mondo esterno. Resta comunque una vittima, nonostante tutto, sia come vampiro che come adolescente. La sua vera natura non è importante: semplicemente, Martin è un emarginato, vittima di una maledizione familiare, non tanto basata su antiche superstizioni, ma piuttosto sulla stupidità contemporanea.

È solo un costume?

 

“(...) intrinsically related to the conflict between magic and reality is Romero's frequent blurring of the distinction between monster and victim and how easily that boundary is crossed and our sympathies turned. This is central to Martin, a film whose “monster” is more the victim of a lack of human understanding and compassion than an actual vampire; it makes the frightening implication that anyone can become a «monster»”[2].

Che Martin sia un necrofilo, capace di esprimere la propria sessualità malata solamente narcotizzando e uccidendo le partner, o il prigioniero di un’antica maledizione di famiglia, è in ogni caso un autentico figlio del suo tempo, autisticamente incapace di instaurare relazioni sane con il prossimo. Vampiro o ragazzo disturbato: non cambiano le conseguenze della sua inabilità sociale. Ma ciò che è più rilevante per noi è il fatto che la visione opposta dei suoi famigliari incarni esattamente i due punti di vista antitetici che lo spettatore può assumere. Cuda, suo zio, anziano e ultraconservatore, che crede fermamente nella natura maligna di suo nipote (e che all’inizio del film dichiara programmaticamente: “first I will save your soul, then I will destroy you”), rappresenta il lato romantico, anche se arretrato, ancora solidamente attaccato alle sue radici europee e alla loro mitologia, che utilizza come appiglio per non perdere la propria identità nel nuovo paese di adozione, l’America.

Christina, nipote di Cuda e cugina di Martin, è la personificazione del razionalismo contemporaneo: convinta che Martin debba essere aiutato a vincere la sua attitudine antisociale, rifiuta i discorsi sulla magia e le collane d’aglio, rinnegando allo stesso tempo le proprie origini, in un tentativo, forse inconscio, di abbracciare una nuova identità americana, illuminista.

Fin dalle prime inquadrature, è chiaro che la realtà e la fantasia (o si tratta piuttosto di ricordi di vite precedenti?) continuano a sovrapporsi nella mente del protagonista e nella percezione dello spettatore. Brevi sequenze in bianco e nero, ambientate in un passato dal respiro gotico, mostrano Martin con una bellissima fanciulla vestita di bianco: nella realtà il giovane si trova invece a bordo di un treno, nascosto nello scompartimento di una ragazza fin troppo normale, in camicia da notte e con il volto ricoperto da una maschera di bellezza.

Si tratta di un ricordo del passato vampiresco di Martin o semplicemente la sua mente lo sta ingannando, offrendogli una versione più affascinante di una ben più triste realtà o un’incarnazione dei propri desideri? Non lo sapremo mai. Ma sicuramente il modo in cui Martin sceglie di mettere in scena il suo vampirismo è più contemporaneo e meno fascinoso di quello raccontato dall’iconografia classica: prima di tutto, non cerca neppure di sedurre le sue vittime, preferisce sedarle, iniettando loro narcotici per farle addormentare. Inoltre, l’approccio fisico intentato da Martin non ha niente a che fare con la seduzione oscura, eppure affascinante, dei classici vampiri cinematografici, da Bela Lugosi a Christopher Lee: lotta violentemente con la ragazza, cercando disperatamente di convincerla che non le farà del male, ma l’atto in sé somiglia più a uno stupro che a una seduzione. L’unica traccia, molto debole a dire il vero, di sensualità si ritrova quando, dopo che la ragazza si è addormentata, Martin si spoglia, la spoglia e la bacia, prima di tagliarle le vene per succhiarle il sangue. Ma anche qui dimostra chiaramente un problema nell’esternare la propria sessualità: mentre il collo, zona d’elezione per ogni vampiro che si rispetti, denota una chiara connotazione sessuale, il polso è più che altro legato a un immaginario mortifero, suicida. Da questa prima scena lo spettatore è portato a credere perciò che il protagonista sia uno psicopatico feticista dei film horror.

Ma l’incontro con lo zio Cuda, ieratico e vestito di bianco, sovvertirà il punto di vista del pubblico perché l’uomo è assolutamente convinto che il ragazzo sia un vampiro, un “nosferatu”, come continua a chiamarlo, e lo rende immediatamente noto al nipote stesso, confinandolo in una stanza e riempiendo la casa di aglio, croci e grottesche icone religiose. Secondo Cuda, Martin è la vittima di una maledizione che colpisce la famiglia da secoli, e, mentre la nipote Christina cerca di riportare la razionalità, definendo il cugino un adolescente disturbato e confuso, lo stesso Martin sfugge a entrambe le definizioni a seconda del momento. In alcuni casi, il ragazzo sembra conscio dei propri problemi psichici, arrivando ad ammettere con Christine di aver visto molti specialisti ma di non essere riuscito a risolvere le proprie psicosi, ma altre volte, specialmente parlando al telefono con una stazione radio, afferma di essere nato nel 1982 e di avere 84 anni.

La situazione si ribalta nuovamente quando, per sottolineare il proprio ruolo di vittima di una ridicola superstizione, il ragazzo si prende gioco di Cuda travestendosi da vampiro: indossa un mantello nero, denti finti e trucco cadaverico, spaventando a morte lo zio per poi rivelargli “It's just a costume”. Martin qui sembra suggerire che, in effetti, un elemento di schizofrenia è presente in famiglia, ma non sono le nuove generazioni a esserne colpite, bensì quelle precedenti.

Il punto di vista di Cuda e Christine viene anche reduplicato nelle figure dei due sacerdoti, Padre Howard (interpretato dallo stesso Romero) e Padre Zulemas: la nuova generazione di religiosi rifiuta il rapporto con demonologia, esorcismi e tutti gli elementi soprannaturali collegati alla spiritualità. Padre Howard, infatti, quando gli viene chiesto se crede ai demoni, può solo rispondere, disorientato, che non sa cosa pensare e consigliare a Cuda di rivolgersi all’anziano Padre Zulemas, un esperto di demonologia. Il giovane sacerdote non tenta nemmeno di mascherare il suo scetticismo e Romero coglie l’occasione per ironizzare, non solo sulla superstizione ma anche sul cinema facendogli dire: “It's an interesting subject, actually. You should talk to Father Zulemas about this. He's a great old guy, he claims he'd actually done the old mystical rites for real. You went to see that film, The Exorcist? He said they did it all wrong!”

Romero tenta costantemente di confondere lo spettatore, aggiungendo e sottraendo indizi sull’identità del ragazzo: come scrive il regista stesso, “we can believe that Martin is the victim of a curse, or that he is simply a psychopathic. His visions of screaming crowds could come from the movies he has seen. We have seen them too”[3].

Martin è perfettamente consapevole di avere gravi problemi nella relazione con il sesso femminile, e di essere un soggetto psicotico, quando dichiara che per fare sesso ha bisogno di narcotizzare la partner. Ammette anche, più o meno implicitamente, di essere stato profondamente influenzato dall’iconografia horror, come dimostra il suo costume da Dracula del grande schermo, e le sue conversazioni telefoniche con l’operatore di una stazione radio, a cui confessa: “And that's another thing about movies: vampires always have ladies, sometimes lots of ladies, but that's wrong too (…). In real life you can't get people to do what you want to”. Un altro elemento che potrebbe portare a ritenere Martin un semplice psicopatico sta nel fatto che la sua sete di sangue diminuisce drasticamente quando il ragazzo comincia ad avere regolari rapporti sessuali con la signora Santini, una donna disperatamente sola che non può avere figli e si tortura per questo. Ma quando la donna si taglia le vene, distrutta dal suo dramma interiore, Martin pensa che tutto sommato non sia un male, perché a lui non è possibile avere amici, riferendosi implicitamente alla sua natura inumana. Inoltre i flashback sempre più frequenti mostrano inquietanti parallelismi tra la vita vampiresca precedente di Martin e la vita nella Pittsburgh contemporanea, culminando in un doppio inseguimento: un linciaggio nel flashback e l’inseguimento della polizia dopo l’ omicidio di uno spacciatore nel presente. Non c’è soluzione definitiva al dilemma, come abbiamo detto: infatti Martin finirà la sua esistenza, umana o vampiresca che sia, ucciso da suo zio, punito per l’unico decesso che non ha causato: Cuda non crede che la signora Santini si sia suicidata e attribuisce la sua morte al nipote maledetto. Ma mentre il film finisce con Martin ucciso da un paletto di legno nel petto, lo spettatore resta con il proprio dubbio irrisolto: Martin è un vampiro contemporaneo, incapace di comunicare (come tutti, del resto) nell’era della comunicazione di massa, o solamente un ragazzo disturbato, capro espiatorio di un contesto sociale ancora più disturbato? Ma è poi così importante scoprirlo? Secondo il regista, non solo l’identità di Martin diventa un falso problema, ma potrebbe essere pericoloso arrivare a conoscere la verità: la ricerca potrebbe portare a scoprire i mostri che ci circondano o, ancora peggio, quelli che vivono dentro di noi.

“Martin is a vampire, because he drinks the blood of his victims, but to define him as such, in the traditional way, doesn't only imply that he is misunderstood, but also that he is somehow forgiven. To catalogue the monsters means to expect that they will behave in a predictable way. We become predictable when we expect Martin to be so, becoming therefore also more vulnerable to his crimes. If he is our son, our original conscience, regarding us from the depths of our souls, then Martin is really a dangerous creature, because he discovered us, while we didn't even get close to understand him”[4].


[1]   Tony Williams, The Cinema of George A. Romero. Knight of the Leaving Dead, Wallflower Press, London & New York, 2003, p. 22.

[2]   Paul R. Gagne, The Zombies that Ate Pittsburgh. The Films of George A. Romero, Dodd, Mead & Company, New York, 1987, p. 6.

[3]   George A. Romero, Martin, in Giulia D'Agnolo Vallan, George A. Romero, Torino Film Festival Edizioni, Torino, 2001, p. 142 (translation mine).

[4]   George A. Romero, Martin, in Giulia D'Agnolo Vallan, George A. Romero, Torino Film Festival Edizioni, Torino, 2001, p. 142 (translation mine).


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