La premessa è analoga alla saga sopracitata che ha reso celebre l'Eli Roth regista al di là della conventicola tarantiniana. Dei giovani americani, guidati da un leader trafficone e un po' spaccone, si recano in Perù spinti dalla voglia di portare a termine un'azione di denuncia umanitaria contro i crimini perpetrati in Amazzonia dai signori della guerra finanziati dalle multinazionali: ancora una volta degli statunitensi in un paese piuttosto lontano da loro (anche più della Slovacchia) che credono di poter padroneggiare le avversità con cieca sicurezza, a prescindere dall'ambiente in cui si trovano e dai rischi cui potranno andare incontro.
La situazione però degenera ben presto e dopo un apparente successo della missione i malcapitati finiranno ostaggio di una tribù indigena di mangiatori di carne umana, in un incubo a cielo aperto di proporzioni inimmaginabili. La protagonista Lorenza Izzo, nonostante rifiuti tale definizione, ha gli occhi spalancati e fobici da screem queen in piena regola ed è fulcro di un'odissea di terrore che come i film del filone cui Roth si ispira non relega fuori campo le sporcizie, gli umori, gli odori, le secrezioni di ogni tipo. Ed è così che la masturbazione o la defecazione nella gabbia non diventano inutili scenette di contorno ma coerenti incursioni nel viscidume del bassoventre e dell'istinto, simboli di una cattiveria strumentale che nel suo tritacarne non risparmia neanche l'impudicizia, fermamente convinta di sé e dei suoi mezzi nel fotografare da una prospettiva ravvicinatissima un'umanità condotta a un passo dalla più cruenta delle morti.
Roth si prende gioco degli attivisti evidenziando l'ottusità generale del loro agire e l'immoralità del loro leader tra ipocrisie, menzogne reciproche e la disponibilità a idolatrare qualsiasi totem, come dimostra l'emblematico finale. I riferimenti politici senza peli sulla lunga (''Credi davvero che esista la lotta alla droga?'', ''Ma secondo te come può il governo americano non essere responsabile dell'11/9'') sembrano invece un filo più strutturati rispetto a un Machete qualsiasi, in cui l'altro grande compagno di merende tarantiniano, Robert Rodriguez, lo prende davvero solo a pretesto per far caciara, come si è scritto. Roth è invece animato da un sincero antiamericanismo di fondo che è rozzo ma ideologicamente uniforme dall'inizio alla fine, in cui le frattaglie mostrate rispondono del letame che alberga nei piani alti e gli istinti basici sono l'unica chiave possibile per raccontare lo squallore e lo sbando. The Green Inferno riesce insomma a maneggiare con perizia anche temi scottanti: su tutti, la potenza politica delle immagini e del filmare, esercizio di potere condizionante come pochi altri che in un paio di sequenze viene esaltato come meglio non si potrebbe.
Voto: 3/4