Lee Ju-hyoung, al suo primo lungometraggio, ha la pesante responsabilità di dirigere un film scritto, prodotto e montato da Kim Ki-duk, reduce dai fasti veneziani (Pietà, Moebius) e capace di spiazzare e sconvolgere con storie di umana desolazione ai limiti del tollerabile, asciugando i dialoghi e lasciando parlare le immagini. Red family, presentato in concorso al 31 Torino Film Festival, si discosta parecchio da questo modello e il risultato ne risente.
Il tema è il rapporto tra Nord e Sud Corea, divise da sistemi economici e governativi agli antipodi (la prima è una dittatura comunista filocinese, la seconda una democrazia filostatunitense): l’analisi dei personaggi vuole teorizzare l’inutilità di ogni conflitto mostrando un’interiorità che nulla ha a che fare con gli strascichi delle ideologie (soprattutto se imposte) e i demoni del capitalismo (“Questo film parla dell’atto di liberarsi degli strati superficiali per arrivare alle intenzioni più pure e candide di un individuo”, ha dichiarato il regista). E fin qui si potrebbe abbozzare, nonostante la pretenziosità di base. Purtroppo la forma non riesce ad esprimere con i giusti mezzi il contenuto: fiumi di dialoghi didascalici al limite del ridicolo trasformano il film in una sorta di tragicommedia in cui domina una violenza stilizzata venata di grottesco (Tarantino insegna e guadagna anche una citazione, anche se probabilmente non ne sarebbe felice), colma di stereotipi (l’anziano malato che vorrebbe portare allo zoo il nipotino mai conosciuto) e incapace di evocare reale compassione o commozione per il destino dei personaggi.
L’impressione finale è quella di una grande occasione mancata o di una bufala, con il nome di Kim Ki-duk a fare da richiamo. Lascia perplessi il fatto che un autore del suo calibro abbia prodotto uno script mediocre ma ciò può forse spiegare perché i suoi film più riusciti siano anche i meno parlati.
Voto: 2/4