Tutto questo scompare nell'opera di Inoue: i protagonisti sono rappresentanti primi e ultimi di un'umanita misera e sperduta, dominata dal rimorso (nel caso del reduce), e dall'incomprensione (la prostituta e lo sceneggiatore). L'equivalenza netta tra sesso e violenza corre come un fil rouge attraverso le immagini: l'atto copulatorio è spogliato di ogni valenza affettiva o erotica ed eletto a emblema di soppraffazione e dominazione, metaforizzando lo stravolgimento fisico ed emotivo dei personaggi e dello stesso Giappone.
Il problema sta nella modalità di rappresentazione: lo stile è indefinito, a metà tra velleità documentaristiche (camera a mano, inquadrature traballanti e fuori fuoco), effettistiche (con scarsi risultati, ai limiti del dilettantismo) e tentate geometrie, il più delle volte mancate e totalmente fuoti contesto quando riuscite: il prefinale, con la macchina da presa ferma sul primo piano del soldato che confessa i suoi crimini, è senza dubbio notevole ma stona tra tante brutture formali, soprattutto se associato ad una conclusione raffazzonata e didascalica.
"La gente tende a dimenticare; i giapponesi, in particolare, dimenticano molto facilmente. [...] Come regista, il mio scopo era girare un film che parli di argomenti che altrimenti i giapponesi dimenticherebbero." Nobili intenti che però non bastano a salvare un'operazione mediocre.
Voto: 2/4