In Iran le new generations profanano la tradizione degli atavici poeti persiani, riscoprendo la melodia della rima nella musica proibita.
Dopo la costituzione della Repubblica islamica in Iran (1979), la musica è stata oggetto di un acceso dibattito politico e religioso. Il suo status giuridico e sociale è in continua evoluzione, la sua intrinseca natura seduttrice necessita di restrizioni per ovviare al suo potenziale sapore molle, corrotto ed occidentale. Nonostante la morsa del regime si sia decisivamente allentata a seguito della c.d. guerra “imposta” contro l’Iraq (1980-1988) e della morte dell’ayatollah Khomeini (1989), nella Repubblica teocratica la musica continua ad essere oggetto di strenua censura. “Purezza” e “autenticità” devono essere strettamente collaudate da autorità governative e Guida Suprema, ossia colui che sta in cima all’impalcatura politico-religiosa del Paese.
I generi musicali “legali” sono tre: musica popolare iraniana, musica classica iraniana o “tradizionale”, e -con dovute riserve- il pop iraniano. Contenutisticamente parlando, le canzoni devono raccontare di genitori, figli, famiglie, figure religiose. Tutti gli altri generi: dal rock al jazz, passando per l’elettronica e l’hip hop, come pure la musica straniera sono categoricamente vietati.
Il proibizionismo funzionerebbe forse se l’Iran fosse un Paese di vecchi, mentre invece vanta di una popolazione di 76 milioni di abitanti, il 60% dei quali sotto la soglia dei 35 anni. Non sorprende pertanto che “i figli della rivoluzione”, ai quali basta una connessione Wi-Fi per affacciarsi sul mondo, apprezzino il profano in tutte le sue guise.
E’ di questo in fondo che si tratta: cantare il dolore, urlare l’indignazione e mettere la rabbia in rima. L’attivista e regista Iara Lee fa una riflessione a riguardo sull’Huffington Post: parla di “Hip Hop as Global Resistance”. Secondo Lee, l’hip hop nasce nell’America di Reagan come esplosione di dolore e rabbia tra le comunità afro-americane nei ghetti. Proprio perché è traduzione in arte del disagio, il genio rap può germogliare in ogni luogo ove regni oppressione, povertà e diseguaglianza sociale, saltando di ghetto in ghetto: da Detroit a Gaza, da Beirut a Teheran, oltrepassando i confini. Che si denuncino la tirannia dell’occupazione israeliana (come nel caso dell’artista palestinese Ramallah Underground) o l’isolamento geopolitico (come in quello della rapper iraniana Salomé MC), si tratta comunque di una forma di resistenza e affermazione culturale.
Non stupisce dunque che i generi clandestinamente più affermati tra le generazioni 2.0 iraniane siano: indie rock, heavy metal e hip hop, che rispecchiano rispettivamente le tre modalità di espressione della sofferenza: condivisione, rabbia e denuncia. In uno Stato la cui Costituzione formale individua in Dio, e non nell’uomo, la sovranità assoluta, la musica diventa l’unico mezzo per affermare: “Sono ancora qui, non mi metterai a tacere”.
Ecco come i gatti persiani hanno imparato a cantare. E, provare per credere, la dolcezza e la raffinatezza del farsi non hanno nulla da invidiare al sound d’oltreoceano. Vi lascio sulle note di “Me and you” della band “Take it easy hospital”. Buon ascolto!