I gatti persiani hanno imparato a cantare

Creato il 10 gennaio 2014 da Davideciaccia @FailCaffe

In Iran le new generations profanano la tradizione degli atavici poeti persiani, riscoprendo la melodia della rima nella musica proibita.

Dopo la costituzione della Repubblica islamica in Iran (1979), la musica è stata oggetto di un acceso dibattito politico e religioso. Il suo status giuridico e sociale è in continua evoluzione, la sua intrinseca natura seduttrice necessita di restrizioni per ovviare al suo potenziale sapore molle, corrotto ed occidentale. Nonostante la morsa del regime si sia decisivamente allentata a seguito della c.d. guerra “imposta” contro l’Iraq (1980-1988) e della morte dell’ayatollah Khomeini (1989), nella Repubblica teocratica la musica continua ad essere oggetto di strenua censura. “Purezza” e “autenticità” devono essere strettamente collaudate da autorità governative e Guida Suprema, ossia colui che sta in cima all’impalcatura politico-religiosa del Paese.

I generi musicali “legali” sono tre: musica popolare iraniana, musica classica iraniana o “tradizionale”, e -con dovute riserve- il pop iraniano. Contenutisticamente parlando, le canzoni devono raccontare di genitori, figli, famiglie, figure religiose. Tutti gli altri generi: dal rock al jazz, passando per l’elettronica e l’hip hop, come pure la musica straniera sono categoricamente vietati.

Il proibizionismo funzionerebbe forse se l’Iran fosse un Paese di vecchi, mentre invece vanta di una popolazione di 76 milioni di abitanti, il 60% dei quali sotto la soglia dei 35 anni. Non sorprende pertanto che “i figli della rivoluzione”, ai quali basta una connessione Wi-Fi per affacciarsi sul mondo, apprezzino il profano in tutte le sue guise.

“No one knows about Persian cats” (trailer)è il film documentario dello scrittore e regista curdo-iraniano Bahman Ghobadi, il cui titolo si ispira al divieto iraniano di animali domestici (cani e gatti) in pubblico, ma che metaforicamente rimbalza ad un altro argomento tabù: la musica proibita. Consigliato a tutti i neofiti del genere, il film esplora la scena underground di Teheran, che ospita indie-rock, heavy metal, latin jazz, melodico (mi ricorda molto l’affine film documentario: “Crossing the bridge: the sound of Istanbul” del regista turco Fatih Akin). “Gatti persiani” è il primo set di Ghobadi ambientato nella Teheran contemporanea (il capolavoro del regista è infatti “A time for drunken horses”, girato sul confine iracheno-iraniano). Se nella terra dell’Ayatollah Khamenei è pressoché impossibile diventare musicisti, è mestiere ancor più arduo fare il regista. Non avendo ricevuto il lasciapassare dalle autorità iraniane, Ghobadi è stato arrestato ben due volte durante le riprese. La co-produttrice Roxana Saberi, una giornalista americana, è stata invece ammanettata per spionaggio, e rilasciata solo due giorni prima che il film vincesse il premio speciale di giuria a Cannes.

Oltre all’indie rock (che nel film è rappresentato dal duo “Take it easy hospital”), la scena musicale underground e clandestina a Teheran è quella hip hop. Conosciuto come Rap-e Farsi, il genere nasce negli anni ’90 e il suo capofila è il rapper Saroush Lashkari, meglio conosciuto come Hichkas (“Nobody”), padre del rap iraniano. “L’hip hop è nato in America, ma l’Iran ha avuto una delle più lunghe tradizioni di poesia nel mondo”, racconta ad Al-Monitor Hichkas, “La poesia è nel nostro sangue. Se Tupac può cantare il dolore della sua cultura, perché non posso fare la stessa cosa nella mia lingua”?

E’ di questo in fondo che si tratta: cantare il dolore, urlare l’indignazione e mettere la rabbia in rima. L’attivista e regista Iara Lee fa una riflessione a riguardo sull’Huffington Post: parla di “Hip Hop as Global Resistance”. Secondo Lee, l’hip hop nasce nell’America di Reagan come esplosione di dolore e rabbia tra le comunità afro-americane nei ghetti. Proprio perché è traduzione in arte del disagio, il genio rap può germogliare in ogni luogo ove regni oppressione, povertà e diseguaglianza sociale, saltando di ghetto in ghetto: da Detroit a Gaza, da Beirut a Teheran, oltrepassando i confini. Che si denuncino la tirannia dell’occupazione israeliana (come nel caso dell’artista palestinese Ramallah Underground) o l’isolamento geopolitico (come in quello della rapper iraniana Salomé MC), si tratta comunque di una forma di resistenza e affermazione culturale.

Non stupisce dunque che i generi clandestinamente più affermati tra le generazioni 2.0 iraniane siano: indie rock, heavy metal e hip hop, che rispecchiano rispettivamente le tre modalità di espressione della sofferenza: condivisione, rabbia e denuncia. In uno Stato la cui Costituzione formale individua in Dio, e non nell’uomo, la sovranità assoluta, la musica diventa l’unico mezzo per affermare: “Sono ancora qui, non mi metterai a tacere”.

Ecco come i gatti persiani hanno imparato a cantare. E, provare per credere, la dolcezza e la raffinatezza del farsi non hanno nulla da invidiare al sound d’oltreoceano. Vi lascio sulle note di “Me and you” della band “Take it easy hospital”. Buon ascolto!


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