In effetti, i dati raccolti sulla situazione dei singoli – in totale, 76 – sono molto utili e interessanti: ma l’interpretazione che ne viene offerta è piuttosto problematica, come l’accostamento quantitativo a Iran e Cina mentre la situazione qualitativa è totalmente dissimile. In sostanza, a essere in prigione – spesso in attesa di processo – sono giornalisti accusati di attività eversive o di attività propagandistiche a sostegno del Pkk: non c’è nessuno in galera per aver espresso “critiche” sull’operato del governo; e anzi, nel rapporto si tace accuratamente sugli enormi progressi in tema di libertà di stampa compiuti negli ultimi 10 anni e sulla richissima varietà di posizioni – anche ferocemente critiche nei confronti del governo – espresse quotidianamente sulla stampa e in tv (alcuni giornalisti sono stati però licenziati per aver espresso delle posizioni in forte antitesi con la linea editoriale della propria testata).
E allora? E’ evidente come lo strumento della carcerazione preventiva è sistematicamente abusato in Turchia, è altrettanto evidente che la legislazione anti-terrorismo è esageratamente repressiva, oltre che formulata in modo eccessivamente vago; tuttavia, non ha molto senso esprimere giudizi sulla libertà di stampa in Turchia tacendo sul ruolo che organizzazioni e individui hanno giocato – anche in modo decisivo – a sostegno delle iniziative golpiste più recenti (se ne sta occupando una apposita commissione parlamentare).
Soprattutto, il vero problema è ben altro e in effetti ben più grave: la scarsissima tolleranza per l’attivismo politico, per le manifestazioni politiche di dissenso, da cui tutto il resto deriva; un’eredità pesante del passato, incastonata nella costituzione del 1982, da cui la Turchia del XXI secolo non ha ancora saputo liberarsi.
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