Siamo esattamente in un feroce settembre del 1984 – a dimostrarcelo diversi richiami metatestuali, a partire dalla locandina appesa al muro in cui campeggia il “celebre” anno che segna la morte del segretario generale del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, più volte chiamato in causa durante gli 80 minuti di girato. Nel bucolico e fertile paesaggio emiliano – al momento martoriato dal terribile terremoto che lo sta mettendo in ginocchio – si consuma la difficile fase post-adolescenziale del giovane Elia (Marco D’Agostin) che, nella solitudine di una famiglia divisa tra marxismo e cattolicesimo, cerca di crescere e addomesticare le sue pulsioni con l’autoerotismo, mantenendo intatta e sempre viva quella ingenuità di ragazzino più che di uomo maturo. Il film decolla con l’arrivo di Emilia – interpretata da Lavinia Longhi, già conosciuta per alcuni piccoli ruoli al cinema – prossima alla laurea e con il sogno parigino nel cassetto, che stravolge la quotidianità di Elia, portandolo inevitabilmente a crescere, vivendo per la prima volta, sentimenti grevi come la gelosia o la rabbia più lacerante.
L’opera prende senza alcun dubbio molta ispirazione dallo scrittore Pier Vittorio Tondelli, con continui riferimenti ai suoi romanzi e in particolar modo ad “Altri libertini”, ben visibile sul comodino di Elia e da cui è stata estrapolata la frase che apre la pellicola: «Sulla mia terra, semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere»; poche parole che riassumono esattamente quello che è lo spirito della storia che ci viene proposta. Ma sono anche tanti altri i richiami allo scrittore, a partire dalla scelta geografica, «[…] questa Emilia produttiva e selvatica», fotografata nel film con colori vividi e caldi; e dalla caratterizzazione dei personaggi, sempre in bilico tra passione, trasgressione, voglia di avventura e libertà, che si contrappone all’alienante immobilità della generazione più adulta, lobotomizzata di fronte un crocefisso o davanti la tv. Marco Righi dimostra di essere un autore con uno stile già ben definito, la sua regia è tutta protesa verso la cura del dettaglio, con la cinepresa che riprende i gesti come rito, dalla madre di Elia che mette i panni ad asciugare o Emilia che esprime tutto il suo fascino con gesti lenti e sensuali, anche solo attraverso una sigaretta da accendere.
Molto ben riuscita risulta la scena madre del film, in cui un montaggio alternato e piuttosto frammentato mostra attraverso brevi sequenze la messa in scena della parabola del figliol prodigo, coadiuvata dalla voce in campo della madre di Elia che la legge dalla Bibbia. Una piccola nota di merito va inoltre a Roberto Rabitti, realizzatore degli arrangiamenti e delle musiche originali che accompagnano i momenti più intensi della pellicola. “I giorni della vendemmia” è un’opera prima assolutamente da apprezzare, innanzitutto perché si tratta di un prodotto di qualità realizzato in sole due settimane, con alle spalle una produzione indipendente e low budget, senza neanche un finanziamento pubblico; ma anche e soprattutto perché è una scommessa, un investimento portato avanti dalla volontà e le capacità tecniche di una troupe con un’età media di 26 anni, e questo, oggi, non è affatto poco.