Tuttavia è tra le produzioni minori che si nasconde il titolo più curioso, quello che col tempo acquista la stima e l’apprezzamento sincero del pubblico più trasversale. Gladiator (questo il titolo originale) è proprio questo: un mix disinvolto della mitologia pop del periodo che, questione non secondaria, sa conquistarsi con determinazione un’identità filmica specifica.
“E’ la storia di due adolescenti intrappolati nel mondo della boxe illegale. Il primo sta lottando per salvare il padre e combatte per pagare i suoi debiti di gioco, il secondo è spinto dalla voglia di arricchirsi, per potere uscire dal ghetto. Sfruttati da un agente di boxe, i due diventano amici. Un finale adrenalinico metterà i due l’uno di fronte all’altro sul ring, in una lotta per la sopravvivenza”
Le influenze innegabili della saga pugilistica di Rocky, di quella adolescenziale di Karate Kid e sottopelle del piccolo capolavoro di Abel Ferrara China Girl sono tutte sul piatto, accuratamente sfiorate più nello spirito che saccheggiando banalmente intere sequenze o soluzioni visive. Ed è proprio questo il punto di forza della pellicola di Herrington, affrontare una vicenda di formazione metropolitana con particolare sensibilità, coadiuvato dalla solida sceneggiatura firmata da Lyle Kessler e Robert Mark Kamen (quest’ultimo, si noti bene, autore dello script dei sequel di Karate Kid e della riuscita trilogia francese di The Transporter).
Non di meno funzionano a dovere l’eccellente colonna sonora – contenente hit come I will survive di Chip Trick o la cover di We will rock you dei Warrant – ed il cast attoriale, dove prevedibilmente svettano il navigato Brian Dennehy ed un bravo Cuba Gooding Jr.
Non certo un film rivoluzionario né sperimentale, ma un prodotto onesto nel saper affrontare la boxe illegale e l’ambiente che la caratterizza, senza mai lesinare in battute memorabili e momenti di puro intrattenimento.