Con il 2013 che ci lascia si ha modo come ogni anno di ritornare su una stagione di cinema visto e vissuto, ricordando i titoli che più ci hanno colpito e segnato nel profondo. Non necessariamente i film più memorabili, magari anche solo quelli che sentiamo idealmente più vicini, che abbiamo voglia di tenere a mente nel tempo perché hanno bucato il nostro immaginario in misura maggiore rispetto a tutti gli altri. Il criterio non è dunque quello della rigorosa graduatoria in ordine crescente di qualità, ma tiene conto di una complessità di fattori tra loro diversi e ovviamente complementari. Un percorso che ognuno di noi può fare soggettivamente, spinto dal proprio gusto e dal desiderio di rievocazione. Un rito collettivo dal quale quasi nessun appassionato sembra volersi sottrarre, con tutto il positivo e il negativo che ciò comporta. E allora, perché non giocare, se di solo gioco si tratta?
Il parametro è quello, stringente e selettivo, delle uscite in sala che abbracciano il periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre 2013. In tal modo tanti film grandiosi visti altrove rimangono necessariamente fuori, ma è anche una condizione necessaria per mettere ordine e garantire una certa uniformità tra una classifica e l’altra (perché i confronti tra le varie top 10 si fanno, inevitabilmente). Tanti i titoli esclusi invece a malincuore: dal lucido anche se non del tutto compiuto Bling Ring di Sofia Coppola al mélo tagliente e amaro Dietro i candelabri di Steven Soderbergh, dal discusso e generoso La grande bellezza di Paolo Sorrentino, un film in grado di andare oltre i propri stessi limiti in più di un’occasione, al sensazionale esercizio erotico e politico di metateatro compiuto da Roman Polanski in Venere in pelliccia. Passando per Il passato di Asghar Farhadi, l’esilarante Facciamola finita, il commovente Questione di tempo, per non parlare di Holy Motors, che è forse da considerare l’undicesima posizione virtuale. Ad ogni modo, andiamo ad incominciare, dal numero 10 al numero 1…
10) LO SCONOSCIUTO DEL LAGO
Vincitore del premio per la miglior regia nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes, il film di Alain Guiraudie è ambientato su una spiaggia di omosessuali nudisti che consumano in quel luogo eletto la loro segreta evasione amorosa, lontana dallo sguardo della società e dagli occhi indiscreti dei benpensanti. Un film rarefatto e immerso in una tensione magistrale, che vive di momenti di regia calibrati e impeccabili e di una raffinata idea di messa in scena, nonostante le tante scene esplicite e impudiche. Un film incredibilmente libero, formalmente eccezionale.
9) GRAVITY
La dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) e l’astronauta Matt Kowalski (George Clooney) vivono sulla loro pelle un disastro aerospaziale di proporzioni devastanti: dei detriti si scagliano sulla loro base mentre sono in corso delle operazioni di riparazione e i due vengono scagliati nello spazio, sbalestrati, senza più vincoli. Per la Stone della Bullock, impossibilita a instaurare un contatto, è l’inizio di una sofferta odissea personale. Un film stupefacente, magistrale dal punto di vista tecnico e capace di abbinare la sensazionalità visiva ad una radicale, classicissima idea di umanismo. Perfino il virtuosismo più impensabile (il fragoroso e lunghissimo piano sequenza iniziale) diventa non solo possibile ma anche necessario.
8) BLUE JASMINE
Il Woody Allen cinico, affilato e cattivo che dai tempi di Harry a pezzi e forse anche di Crimini e misfatti avevamo dovuto tenere a malincuore in stand-by, con una certa fatica e un discreto disappunto. Eccolo tornare con questa unghiata magistrale alla borghesia americana e ai suoi stravizi, condotta attraverso un viaggio formidabile nel decadimento sociale della protagonista. Cate Blanchett riaggiorna il mito attoriale di Gena Rowlands, in pelliccia, con gli occhi fradici a monologare e a straparlare su una panchina, lasciandoci inermi e devastati dinanzi alla visione della sua (e della nostra) inadeguatezza. Un Allen quasi politico, meravigliosamente oltre il vincolo mortificante dell’allenismo, di questi tempi più croce che delizia per la ricezione collettiva (e non solo critica) del suo cinema.
7) THE ACT OF KILLING
Nel 1965 l’esercito depone il governo indonesiano con un colpo di stato. In pochissimo tempo tutti gli oppositori vengono dichiarati comunisti e trucidati. Molti anni dopo, i fautori impuniti di quel massacro si rivelano tutt’altro che ostili a raccontare le loro esecrabili gesta. Il regista Joshua Oppenheimer filma il diretto resoconto delle brutalità di cui si macchiarono, condotto da loro stessi in forma di prodotto cinematografico messo in campo lì per lì, con l’immediatezza dell’artigianalità. Un film ributtante per quanto è programmatico nel suo discendere agli inferi, nel suo specchiarsi nell’abisso.
6) SPRING BREAKERS – UNA VACANZA DA SBALLO
Un film che ha diviso, e radicalmente. Quella che è stata definita la “messa da requiem” del Sogno Americano ripensa l’immaginario della Mtv Generation e lo riformula attribuendogli la dentatura luciferina del Mostro, che poi è la stessa che ha in bocca Alien, il personaggio di James Franco. Un gruppo di sbandate e le loro imprese da ragazzacce attraverso i fondali di un immaginario giovanile plastificato, orrido e sintetico. Quando irrompe Everytime di Britney Spears in una scena al ralenti che è già cult, il contrasto patetico con lo squallore che invade tutto il resto è tale che addirittura ci si commuove, anche non volendo. Il film di Harmony Korine è così, manipolatorio e scomodo. Oltre che potente. E memorabile.
5) LE STREGHE DI SALEM
Rob Zombie adatta un suo romanzo in un film che è pura follia lisergica, oltre le barriere stesse dell’horror più sperimentale che si possa oggigiorno concepire. Non a caso Le streghe di Salem è un film incredibilmente anacronistico, girato con un’autonomia d’invenzione tale che si fatica a classificarlo come contemporaneo. Malsano e sfrontato, blasfemo e degradante, è il prototipo del capolavoro che se ne infischia (meravigliosamente), di tutto e contro tutto e tutti, andando consciamente in contro agli strali, specie da parte del mondo ecclesiastico. Imperdibile.
4) DJANGO UNCHAINED
Quentin Tarantino e il western: l’incontro definitivo, la lettera d’amore mai esplicitamente scritta fino a prima di questo film che viene finalmente vergata nella forma di una summa cinefila vorace ma ancora una volta ben più sottile delle chiacchierate apparenze. Come nell’imprescindibile Bastardi senza gloria (un film che le future generazioni studieranno ancora a lungo), è infatti il cinema a riscrivere la storia, a beffarla e a incendiarla, a piegarla al piacere bacchico della vendetta e della palingenesi. Un godimento sinestetico che preme a mille sull’acceleratore: nel finale, quando tutto brucia, applaude la Broomhillda von Shaft di Kerry Washington dinanzi alle gesta esplosive del suo Django e battiamo le mani anche noi, saltando di giubilo sulla poltrona. E poi c’è Christoph Waltz, che sembra nato apposta per i personaggi dalla parlata e dai modi barocchi e forbiti concepiti dal regista di Knoxville.
3) ZERO DARK THIRTY
Il film di Kathryn Bigelow non ha eguali per coerenza estetica, potenza civile, sottigliezza nella messa a fuoco dei segreti sepolti di una nazione. Il racconto della cattura del nemico pubblico numero uno Osama Bin Laden coincide con una ricognizione d’assalto nel dietro le quinte dell’operatività top secret americana. A guidare il tutto, come una fiammella illuminista, c’è l’incontro / scontro tra l’importanza del sacrificio personale e la dimensione collettiva del suo riconoscimento. E altrettanto centrale è il dissidio tra il particolare del sudore quotidiano e l’universale di un’opinione pubblica e di un volto mostrato al mondo ben più controversi. Un film che ragiona sul metodo, sul fine che non giustifica i mezzi. A suggellare il tutto le lacrime della protagonista, tenere e calde, a rigare il suo e il nostro volto. L’ultima mezz’ora con l’assalto al fortino di Abbottabad è letteralmente da brividi. E Jessica Chastain è magnetismo puro.
2) THE MASTER
Paul Thomas Anderson ha già la statura colossale di un classico, raggiuta definitivamente con Il petroliere e portata qui a vette per chi scrive ancor più alte. Questo film, scolpito nello zolfo e negli umori della letteratura americana meno conciliante, è un saggio monumentale sul servilismo, sulla corruzione psicologica dovuta ai fanatismi d’ogni genere, sul bisogno di legarsi a una figura più forte che ogni uomo cova al suo interno anche nelle piccole scelte quotidiane. Una zona erronea letale, che in presenza di disturbi psichici diventa prigione claustrofobica e senza via di fuga, dove tutto si frantuma: l’allucinato reduce di guerra Freddie Quell e il discutibile santone Lancaster Dodd sono due facce della stessa medaglia, servi l’uno dell’altro a fasi alterne, solo che non lo sanno. Un capolavoro infinito, epocale.
1. LA VITA DI ADÈLE
Un film che sarebbe anche potuto durare all’infinito, e non ci sarebbe dispiaciuto affatto. Abdellatif Kechiche studia le creature umane sporcandosi le mani, tra il vigore degli amplessi delle due protagoniste e la concretezza del sugo, della saliva, delle secrezioni corporali, degli umori e degli sfoghi d’ogni tipo. L’innamoramento di Adèle ed Emma è raccontato attraverso un assalto totalitario ai sensi che sovrappone gli strumenti espressivi più immanenti a disposizione del cinema (il primo piano, dimensione privilegiata del regista di Cous cous) con la concretezza altrettanto carnale delle pulsioni e del sentimento che esplode, dubita di sé, prende strade travianti. Ma che, forse, non svanisce neanche. Attendendo un eventuale sequel, che forse vedremo o forse no. Anche così basterebbe già. Tutto grasso che cola, tutta vita che scorre a fiotti impetuosi.
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