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I grandi film del 2014: la classifica di Davide Stanzione

Creato il 31 dicembre 2014 da Filmedvd
Riflessioni

Il 2014 delle uscite in sala si chiude lasciandosi alle spalle una stagione cinematografica forse meno generosa e di livello di altre annate, in termini complessivi. Ma piena, allo stesso tempo, di grandi autori che hanno firmato film enormi (Fincher, Assayas, i fratelli Coen, Scorsese, Jarmusch, Cronenberg), di film spiazzanti, talvolta annichilenti (L’immagine mancante) e a loro modo definitivi (l’Adieu au langage di Jean-Luc Godard è un inevitabile punto di non ritorno), di ritorni graditissimi (Franco Maresco) e sorprese sparse. La consueta classifica di fine anno è un’occasione per provare a fare un bilancio di quanto visto in sala e mettere dei punti fermi sui film del 2014, soffermandosi sulle opere più importanti che hanno segnato dodici mesi di visioni.

Tra gli inediti, che ovviamente non troveranno spazio in questa Top 10, non mancano film notevoli e di grande fascino: il malinconico Eden di Mia Hansen-Løve, l’incredibile horror The Babadook, il punitivo Stations of the Cross, visto alla scorsa Berlinale, il coming-of-age Bande de filles. Per non parlare della miniserie Tv Olive Kitteridge e della serie Tv The knick, dell’abbagliante western di Tommy Lee Jones The homesman, del metafisico Jauja di Lisandro Alonso, del Leone d’Oro Un piccione seduto su un ramo medita sull’esistenza e, last but not least, il magnifico, torrenziale ultimo capolavoro del regista filippino Lav Diaz, From what is before.

Sono rimasti fuori, per volontà del sottoscritto, due film che probabilmente la faranno da padroni ai prossimi Oscar contendendosi molte statuette, ovvero Boyhood e Birdman (in uscita a febbraio). Il primo perché è, a detta di chi scrive, un film radicale solo nelle intenzioni, ma non nello sviluppo, che dietro la bellezza della genesi – la vita di una ragazzo filmata nell’arco di dodici anni, dal 2002 al 2013 – cela un’anima esangue, piatta e orizzontale. Un film sulla vita senza la vita, perché il cinema non è la vita (e lo sappiamo) e un film così non può, ontologicamente, né iniziare né finire (anche se il finale che Linklater cuce addosso ad Ellar Coltrane e a tutti noi è bellissimo, ma questo è un altro discorso). E il secondo perché, nonostante l’imponente dispiegamento formale (un piano sequenza praticamente continuo) e il fascino martellante, è impossibile scinderlo dal suo stesso, compiaciutissimo virtuosismo.

 

10. BELLUSCONE – UNA STORIA SICILIANA

Mentre ogni cosa intorno a lui sembra fargli terra bruciata, Franco Maresco non demorde. E firma un apologo sornione e disperato sui miti di cartapesta di un paese, l’ennesimo atto di resistenza di un cineasta unico e marginale. La radiografia beffarda di una nazione in cui la risata non è mai stata così amara, teatrino dell’assurdo che immortala un’antropologia ancora allo sbando, i detriti di un mondo che si vorrebbe sommerso. E che è ancora lì, col suo cancro. Inestirpabile.

 

belluscone-una-storia-siciliana

 

9. MAPS TO THE STARS

David Cronenberg prosegue la sua discesa agli inferi nei cancri dell’immaginario contemporaneo. E stavolta sceglie Hollywood, il luogo per eccellenza del falso e dell’abbrutimento, dei sogni fatati che sono pulsioni di morte. Un incubo gelido e senza moventi, dalla prima all’ultima scena, una sit-com macabra che sembra un trattato di psicanalisi del delirio. Cronenberg resta un gigante. Leggere anche il suo primo romanzo, Divorati, per credere.

 

Mia-Wasikowska

 

8. L’IMMAGINE MANCANTE

Difficile immaginare un film più sofferto, più alto sotto il profilo morale, più abnegato e rannicchiato nel suo stesso dolore eppure così luminoso, tra soliloqui commossi e metabolizzazioni malgrado tutto. Il cineasta cambogiano Rithy Panh rievoca la dittatura dei Khmer Rossi esclusivamente attraverso statuine lavorate a mano, con un lavoro certosino sotto il profilo cinematografico e un’umana, civile consapevolezza che mette i brividi. Una delle riflessioni sulle immagini più belle degli ultimi anni, sul racconto del potere e il potere del racconto, sulle contraddizioni, il dovere, la tragica impossibilità di narrare un abominio.

 

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7.  IL GIOVANE FAVOLOSO

Mario Martone prende Giacomo Leopardi e lo mette a nudo, letteralmente, spogliandolo degli stereotipi e delle semplificazioni, della polvere dei preconcetti e dei limiti di una tradizione didattica che l’ha ridotto a pallidissimo bozzetto. Ne viene fuori un pensatore moderno, lucidamente ostile al suo tempo, attuale e necessario come solo un padre putativo che avevamo dimenticato di avere può esserlo.

 

Il giovane favoloso

 

6. ADIEU AU LANGAGE – ADDIO AL LINGUAGGIO

Cartoline dall’inferno, mittente Jean-Luc Godard: l’ultimo, caleidoscopico zibaldone firmato dall’unico superstite della Nouvelle Vague è un film sul linguaggio alla fine del linguaggio (e delle immagini come le conoscevamo), in un panorama sempre più multiforme. Con la trasparenza senza nulla da perdere del più distaccato degli stoici, Godard inanella visioni disarticolate che parlano, scavando in profondità, della morte della sintassi e del peso che tuttavia continuiamo a tributarle, sebbene il mondo stia andando in un’altra direzione, regredendo il suo sguardo ad altezza di cane. Allarmante. E senza ritorno. Addio. Oh, Dio.

 

Jean-Luc-Godard-Adieu-au-langage

 

5. THE WOLF OF WALL STREET

Un orgiastico capolavoro che fonde insieme gli estremi più barocchi ed esasperati del cinema di Martin Scorsese e li restituisce in forma ancor più famelica e masturbatoria. Un film mostruoso, deforme, comicamente disperato, un manifesto poetico fibrillante e forsennato, pensato, montato e girato a mille all’ora. Il sogno americano come parco giochi dell’orrore. E il fugazy del broker Matthew McConaughey a cogliere l’immaterialità di un’epoca – la nostra – farneticante ed evanescente. Costantemente a un millimetro dalla catastrofe, eppure inebriata dal suo stesso baratro.

 

Leonardo DiCaprio

 

4. SOLO GLI AMANTI SOPRAVVIVONO

I vampiri solitari e innamorati di Jim Jarmusch, reclusi in una Detroit fantasma, ci parlano di amore, di resistenza, dell’importanza della cultura e del bisogno di continuare a tramandare ai posteri una qualche forma di vocazione testamentaria, per evitare che ogni cosa perisca come effettivamente sta perendo. La cosa interessante è che ci dicono tutto ciò in maniera dimessa, afona, sussurrando (e mordendo) senza far rumore, rifiutando gli strilli e gli slogan. Molto più che un film indie-chic: un’opera sul potere della memoria, contro la mortificazione dell’oblio (e della retorica dell’ottimismo). E scusate se è poco (in Italia, di questi tempi, soprattutto…).

 

tilda-swinton

 

3. A PROPOSITO DI DAVIS

Il cantante perdente e randagio dei fratelli Coen è messo lì a dirci di talenti da sé dichiarati fatti a pezzi dall’industria, delle luci opache di un mondo che, nostro malgrado, non esiste più, della necessità di vivere il proprio tempo e  la propria epoca per non essere stritolati dallo scorrere delle lancette che tutto fagocita e tutto dimentica. Nell’eterno ritorno del fato coeniano, l’inizio e la fine si equivalgono, ma quel che conta è il viaggio. All around this world, che sarà anche spietato e idiota, ma è l’unico che abbiamo. Fare thee well a tutti, allora, che ne abbiamo bisogno. Alla fine di un anno vecchio come all’inizio di uno nuovo.

 

llewyn-davis

 

2. SILS MARIA

Come il Llewyn Davis di Joel & Ethan Coen con l’avvento di Bob Dylan sulla scena folk americana, alla Maria Enders di Olivier Assayas non resta che arrendersi all’ineluttabilità di un vento che è cambiato, facendo i conti con riflettori che si sono spostati altrove, su una diva più giovane, su forme di comunicazione più agili e contemporanee. Acquisire la consapevolezza che il tempo passa e delle tracce, profonde e dolorose, che le lascia è il primo passo, di sicuro il più decisivo, per resistere e non morire. Maria ci riesce, alla fine, ma niente può davvero salvarla: non è più tempo di sfumature, morte e sepolte dall’urgenza di una velocità neo-futurista e immemore.

 

Clouds-of-Sils-Maria

 

1. L’AMORE BUGIARDO – GONE GIRL

Il film del 2014, non solo il più bello, ma anche il più attuale. Il depistaggio, l’inganno, la sorpresa che gela il sangue nelle vene, il gioco delle parti, lo spiazzamento, la truffa delle emozioni e dei sentimenti, il matrimonio come cappio mortale, i legami come anticamera della menzogna e della separazione, la vicinanza come preludio inevitabile alla distanza. Una confezione impeccabile, una secchezza estetico-formale e un’eleganza senza pari, un regista letteralmente in stato di grazia, che sparisce dietro la narrazione e ci regala un film-saggio sul racconto cinematografico come territorio esperienziale, come esigenza adrenalinica per avvicinarsi, guardare meglio, vedere di più. Una pietra miliare sulla fallace imperfezione dei punti di vista, sulle perversioni dei filtri mediatici, sulle false apparenze, sul lato oscuro di chi ci abita, vive e respira accanto, ogni giorno, ogni ora, anche adesso. Un thriller spartiacque che, se non è già storia, potrebbe presto diventarlo.

 

gone-girl Rosamund Pike

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