Scene di banchetto dalla Tomba del Tuffatore di Paestum
Tra le immagini più ricorrenti sui vasi sia greci che etruschi, vi è certamente quella del banchetto. L'usanza di banchettare sdraiati su letti triclinari, il braccio sinistro appoggiato sul cuscino posto sotto la nuca mentre il braccio destro libero, compare, per la prima volta, nell'arte assira. Un rilievo proveniente dal palazzo di Assurbanipal (669-626 a.C.) raffigura il re, adagiato su un letto, e la regina seduta su un trono ai suoi piedi.La rappresentazione del banchetto è mediata, in Occidente, soprattutto dalla ceramica corinzia ed attica che, affluendo sul mercato etrusco, fa conoscere il vero e proprio rito che si svolgeva attorno alle tavole imbandite (seconda metà del VI secolo a.C.).
Bambini e donne non potevano partecipare ai banchetti greci. Solo le etère avevano accesso al simposio. Si trattava solitamente di prostitute di alto bordo, istruite nel canto, nella danza, nella filosofia. Tra gli Etruschi, invece, era uso che partecipassero ai banchetti anche le donne, sovente sulla stessa klìne degli uomini, con grande perplessità e scandalo dei Greci.
Per il simposio era piuttosto frequente che numerosi amici si riunissero portando ciascuno dei cibi pronti entro dei canestri (spyris): erano i cosiddetti pasti "alla cesta", che compaiono in numerose raffigurazioni vascolari.
La lira, spesso ricavata dal guscio di una tartaruga, accompagnava il canto conviviale mentre il flauto faceva da sfondo alle libagioni. Altri strumenti che si potevano trovare spesso nei banchetti erano la cetra, i crotali o piccoli tamburi.
Tra i giochi che rallegravano i convitati vi erano indovinelli ed enigmi ma, soprattutto, il gioco del kòttabos. Questo consisteva nell'affondare o rovesciare piccoli recipienti, in equilibrio instabile su una particolare asta. Inizialmente il kòttabos era una forma di libagione ma si trasformò ben presto in un'esibizione di carattere amatoria, dal momento che chi colpiva il bersaglio pronunciava il nome della persona di cui sperava di conquistarsi il favore. La pratica del kòttabos era, secondo i Greci, una tra le più grandi scoperte dell'umanità, scoperta che era attribuita ai Siculi. Il termine kòttabos, infatti, sembra la resa greca di una parola non greca: guttus, che diventa kott- e abos, un suffisso non greco. Il gioco è testimoniato tra il VI e il III secolo a.C.. Vi erano due versioni: il tipo classico (kòttabos kataktòs) che prevedeva il lancio del residuo di vino contro il piattello in cima all'asta di bronzo, in modo che cadesse su un piattello posto su un livello più basso, producendo, in questo modo, rumore; il kòttabos en lekànai, in cui si lanciava il vino contro piccoli vasi che galleggiavano in un recipiente. Chi colpiva di più vinceva di più.
Nella sala del banchetto i convitati si disponevano in modo tale da essere a portata di voce e di sguardo degli altri. Le sale per banchetti sono emerse in diversi scavi archeologici: nel santuario di Artemide a Brauron ci sono nove di queste sale, di dimensioni identiche, aperte lungo il portico. Ciascuna sala accoglie undici klinai.
Il simposio era una forma di socialità che durò quanto il mondo antico. I Greci estendevano la felicità che dava il simposio anche ai defunti: all'iniziato veniva promesso che da beato celebrerà banchetti con perennemente sul capo una corona di fiori. Il valore del simposio era anche sacrale. bere significa penetrare nel demoniaco e l'offerta, la libagione, reca in sé un elemento di magia. Sacrale è l'abluzione delle mani e la corona che si pone in testa. Il vino che si beve non è semplicemente e solamente un dono degli dèi, ma una divinità essa stessa, chiamata Bacco, Bromio, Dioniso.
Il simposio si concludeva con un allegro corteo, il kòmos, che vedeva i convitati sciamare nelle vie della città.