Un supercult che ha fatto epoca, ed una lezione di ritmo serrato firmata da Walter Hill, uno degli ultimi grandi registi americani della generazione "di piombo" figlia dello scontento segnato dal sangue versato in Vietnam.
Dovessimo andare avanti nel tempo e cercare un equivalente de I guerrieri della notte nel panorama cinematografico recente, soltanto il tarantiniano Le iene potrebbe essere considerato a tutti gli effetti l'erede di questa pellicola clamorosa lanciata a velocità folle con il pedale pigiato al massimo da un Walter Hill (quasi) mai così in forma.
L'epopea dei Guerrieri e la loro fuga per le strade di una New York iperrealista e dai colori sparati, le stazioni della metropolitana deserte come teatro di scontri violenti eppure mai sanguinosi, la colonna sonora a fungere da cornice e metronomo della sceneggiatura neanche fossimo in un musical sono ancora oggi riferimenti cui il Cinema made in Usa porta rispetto, così come il pubblico di tutto il mondo, che decretò il successo di questa prodigiosa pellicola a tutte le latitudini, convincendo ad un tempo il grande pubblico e la critica di nicchia.
Hill, che si ripeterà - forse addirittura anche meglio - con Southern Comfort - colpevolmente tradotto in Italia come I guerrieri della palude silenziosa, giusto per sfruttare il traino del successo che ebbero qui da noi le gesta dei Warriors -, recupera dalla letteratura di genere un romanzo che adatta alla perfezione al suo stile secco e asciutto, liberando i nove protagonisti in fuga e dando prova di una capacità di sintesi registica da pelle d'oca, definendo storie e dettagli con una battuta, un'inquadratura, un taglio di montaggio.
La struttura, simile per certi versi anche al survival horror, percorre una linea retta quasi fosse un treno della metropolitana gettato in una vertiginosa corsa verso la grande ruota del luna park di Coney Island, che apre i suggestivi titoli di testa e diviene il simbolo della salvezza per i ragazzi partiti con le migliori intenzioni e grande ammirazione per Cyrus e finiti a lottare con ogni mezzo per poter anche soltanto sopravvivere.
Ottime, come già ho accennato, le caratterizzazioni dei personaggi, esplosive ed estremizzate come l'intera opera eppure mai davvero eccessive, come fossero equilibristi insieme a Hill in un "walking the line" rischiosissimo che separa il cult dall'imbarazzante: in particolare - e sento già il Cannibale lamentarsi, ma del resto, ormai sono abituato alle sue fregnacce - la figura di Ajax - nel quale gli appassionati del piccolo schermo riconosceranno un giovane padre di Dexter -, scontroso e testa dura, fregato sul più bello appena concluso lo scontro con i mitici Baseball furies, proprio quando per lui si cominciava a delineare un ruolo da protagonista quasi assoluto, è stata ed è ancora una delle più accreditate del pantheon mitologico fordiano.
Il tutto senza contare il crescendo straordinario dell'ultimo scontro prima del ritorno, con i nostri stremati e con il peso dei compagni perduti sulle spalle, e l'ormai famosissima frase: "Guerrieri, giochiamo a fare la guerra!?" pronunciata come un ossessivo grido di battaglia dall'ormai alle strette leader dei Rogues.
Un finale incredibile per un film incredibile.
Se non l'avete ancora visto, rimediate, non ne resterete delusi - la stessa Julez, normalmente non proprio favorevole alle mie proposte autoriali, è rimasta più che colpita -: anche perchè, in caso contrario, sarò costretto a muovere guerra alle vostre gang da strapazzo.
Forza Guerrieri!
MrFord
"Nowhere to run to, baby
nowhere to hide
got nowhere to run to, baby
nowhere to hide."
Arnold McCuller - "Nowhere to run" -