Preferisco alla carità la “compassione”, passione e pena condivise. Non sono credente, ho una incrollabile fede nella ragione, ma mi piace credere che avesse ragione Alex Langer quando disse che bisogna avere la fede di piantare la carità nella politica. Per farle metter radici, farla germogliare e crescere in modo che la politica ridiventi civile, riacquisti il bene della responsabilità nei confronti del bene comune, e quello della solidarietà nei confronti degli uomini, degli altri da noi.
La sua non era la carità pelosa e nemmeno la pietas del no profit della padania occhiuta e puntigliosa per essere certa che la sua filantropia si possa scaricare dalle tasse, quella dei professionisti instancabili del terzo settore caro al potere, dinamicamente e mondanamente attivi con eleganti e giulive fondazioni o associazioni molto illuminate da riflettori mediatici. E nemmeno quella della brava gente, benpensanti e pii, che alternano il volontariato alla militanza localista contro romeni, musulmani e colf che aspirerebbero ad essere regolarizzate. Preferendo curare piaghe estranee alla cura dei propri genitori ma soprattutto soccorrere indigeni anche poco indigenti all’accoglienza di disperati forestieri.
Sono 25 giovani uomini i migranti trovati morti a bordo del barcone che era stato soccorso ieri al largo di Lampedusa morti in una camera a gas mobile diretto a un qualsiasi lager contemporaneo.
Altri giovani uomini “evasi” da un Cara, ironia dei nomi, Centro accoglienza richiedenti asilo, hanno bloccato per ore la statale 16 bis e i binari di Bari per manifestare la loro rabbia per i ritardi nella concessione dei permessi umanitari per regolarizzare la loro situazione in Italia. Si tratta per lo più di immigrati provenienti dalla Libia e di altre nazionalità che lavoravano nel paese al momento della rivoluzione e sono fuggiti.
I viaggi della nostra contemporaneità, sono viaggi di sopravvivenza: fuori dalle Colonne d’Ercole, la loro metafora è la Zattera della Medusa, con scafisti infami o traghettatori pietosi, coi suo naufraghi sbattuti dalla tempesta e rifiutati dai porti sicuri. E quando per buona sorte arrivano, arrivano per essere respinti ricacciati ripudiati negati nascosti recintati, corpi estranei sgraditi odiati che reclamano sporcano minacciano col semplice urlo silenzioso della loro fame e della loro disperazione, cui togliere lacci, cinte, speranza, dignità e libertà. Sono arrivati qui, a volte di passaggio – non convince nemmeno loro quel nostro benessere che ostinatamente e egoisticamente vogliamo conservare a tutti i costi – per guadagnarsi una vita che assomigli a quella narrazione, a quel sogno cui proprio noi abbiamo voluto credere, sicurezze, privilegi, consumi, beni inutili che ci sono parsi indispensabili.
Ci hanno fatto credere che il capitalismo fosse un male inevitabile, se volevamo pane e companatico, la proprietà di oggetti luccicanti oltre che della bellezza di posti che attraversavamo in ben nutrite comitive, se aspiravamo a una vita tranquilla e protetta magari da vigilantes e torrette fornite di sofisticate telecamere, se volevamo che i nostri figli avessero più agi e garanzie di noi. Fini desiderabili tutti con effetti indesiderabili, certo, prima di tutto la disuguaglianza. Ma ci hanno fatto credere anche che la disuguaglianza fosse un problema dei disuguali, quelli appunto che in ondate numerose minacciavano il nostro pingue squilibrato equilibrio e le nostre già povere convinzioni. Ci hanno fatto credere che fosse fisiologico, lecito, accettabile e addirittura morale, la morale dell’autodifesa, l’egoismo proprio della vocazione predatoria dello sviluppo umano, questo nostro sviluppo regressivo e crudele. Ci hanno fatto credere che per trarne i meritati vantaggi sia necessario l’abbrutimento della solidarietà e dell’umanità, perché questo sarebbe l’unico modo di stare sulla Terra dalla parte giusta, anche se è iniqua, e chi se ne importa se l’abisso che separa ricchi e poveri è sempre più profondo, se sono sempre più numerosi e arrabbiati quelli sommersi. E le differenze non dipendono certo dalla fortuna o dall’azzardo, ma è certo che il gioco d’azzardo lo si può evitare ma il mercato no, perché è un casinò dal quale non si può scappare. E se si scappa è a rischio di naufragio.
Oggi se Langer fosse vivo i giocatori della Las Vegas occidentale gli direbbero: se ti fanno tanta pena i diseredati prenditeli in casa tu. Perché quella pianta non ha proprio attecchito. Non solo ma la politica ha lavorato per alimentare paura, diffidenza, malanimo, egoismo, rancore. E anche per soffiare una sporca polverina anestetica delle coscienze si, e della lungimiranza. Non solo perché le temute “invasioni epocali” di orde indesiderate si ripeteranno senza bussare. Ma perché l’orrenda spirale della storia senza sorprese e che gira intorno a se stessa, ci spinge verso nuove e antiche miserie. È vendicativa così nessuno prenderà in casa i privilegiati di una volta e forse non ci saranno case, ma grotte primitive e gelide come può essere di ghiaccio un mondo senza compassione e senza amore.