I “lavoratori gratis” in fuga dall’Italia

Creato il 24 novembre 2010 da Fugadeitalenti

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Il recente articolo del professor Michele Boldrin sulla “vergogna del lavoro gratis” ha toccato -a mio parere- il vero nodo centrale del “Medioevo italiano”. Il problema, fa intendere Boldrin, non è che occorre irrigidire ulteriormente i controlli degli ispettorati del lavoro o quant’altro: il problema è che occorre aprire alla concorrenza quei settori che godono di vere e proprie rendite di posizione. L’esempio classico che fa Boldrin è quello televisivo, dominato ancora da due giganti (Rai e Mediaset), che negli ultimi anni hanno teso persino a diventare un unicum, come se vivessimo in una specie di “regime comunista” delle telecomunicazioni (considerazione -quest’ultima- mia).

La vera concorrenza tra imprese, l’apertura di settori finora “garantiti”, genera competizione per accaparrarsi i migliori: è questo, in sintesi, il messaggio di Boldrin. Il quale rileva come -drammaticamente- in Italia sia considerato “normale” non pagare la gente che lavora. Soprattutto i giovani, con la scusa che occorre fare gavetta. Un meccanismo perverso -ahinoi- accettato alla fine proprio dalla fascia più debole della società, sotto il ricatto che non esistono strade alternative. Così, in un sistema che risulta difficile definire pienamente “democratico”, inizia (bella l’immagine usata da Boldrin) questa lotteria del “posto fisso e pagato”, alla quale in centinaia di migliaia si sottopongono, offrendo le loro prestazioni lavorative a costo zero o quasi. E’ normale? No. Perché all’estero non avviene così? Sono tutti più ricchi di noi?

Ci sono due fattori, a mio parere, che concorrono a generare questo problema. Il primo è senz’altro di tipo economico: semplicemente, all’estero esiste un’economia più aperta, con un mercato del lavoro più concorrenziale, dove le aziende fanno a gara a contendersi i migliori. Per questo li pagano. In Italia vive gli ultimi anni d’oro un’economia corporativa e chiusa, dove -multinazionali e medie imprese innovative a parte- i concetti liberistici base sono pressoché inesistenti, per cui ogni settore (soprattutto nelle professioni) garantisce rendite di posizione a chi occupa già un posto-chiave.

Il secondo fattore, paradossalmente, è di tipo culturale: in questi ultimi anni, è stato fatto passare per “normale” il fatto che i neofiti del mercato del lavoro non andassero pagati, che dovessero fare la loro bella gavetta a costo zero, prima di accedere (se va bene) alla garanzia di un posto (sotto)pagato. Già – e qui viene il bello… perché anche quando ti pagano, in Italia ti pagano MENO che negli in altri Paesi (grazie anche a una pesante tassazione sul reddito da lavoro dipendente, un simpatico regalo di chi le tasse aveva promesso di ridurle a tutti). E l’asservimento, anche psicologico, a questo mercato del lavoro e a questa economia corporativa prosegue…

Non soprende dunque leggere un altro bell’articolo, questa volta a cura di Pierfranco Pellizzetti, che ha scoperto -un bel giorno- come tra gli operatori ecologici della sua città ci siano anche laureati, persino in Filosofia. Pellizzetti denuncia giustamente come siano stati proprio coloro i quali hanno deciso di investire nelle proprie competenze, a pagare le conseguenze peggiori di un mercato dove -con la laurea- finisci a pulire le strade… o nei call center. Per Pellizzetti, addirittura, le forme di occupazione emerse recentemente indicano una tendenza a offrire posti di lavoro con risvolto “servile”. Altro che emancipazione del “capitale umano”!

Due dati fanno riflettere: l’Italia spende in borse di studio un terzo di Francia e Germania. Nel 2008 abbiamo speso oltre 481milioni di euro, contro gli 1,4 miliardi (miliardi!) di euro degli altri due Paesi. I destinatari nel Belpaese sono stati 151.760, contro l’oltre mezzo milione in Francia e Germania. Insomma, se in Italia 8 studenti su 100 hanno beneficiato di una borsa di studio, negli altri due Paesi hanno beneficiato di analogo trattamento 25 studenti su 100. La beffa, in tutto ciò, è che -considerato che ne abbiamo già tante- l’attuale Governo ha ben pensato di ridurre del 90 (NOVANTA)% il finanziamento statale alle borse di studio per il 2011. E’ semplicemente vergognoso: il diritto allo studio, uno dei fondamenti di qualsiasi Paese democratico, viene spazzato sotto il tappeto dei tagli, come fosse una cosa “normale”. Cosa diremo alle decine di migliaia di talenti, i cui genitori non possono permettersi di pagare loro un triennio all’università?

Secondo dato: le imprese italiane hanno bisogno di circa 236mila diplomati tecnici e professionali. Ne prendiamo atto con piacere. Ma attenzione: il messaggio che emerge è, in modo chiaro, “meglio il diploma della laurea“. Un messaggio che rischia di rivelarsi un boomerang, se guardiamo al futuro: un futuro che, nei Paesi occidentali, si giocherà molto su innovazione e capitale umano, dove il grado di specializzazione e conoscenze sarà fondamentale. Inviare ai giovani il messaggio che la laurea non serve per lavorare può diventare un problema, in proiezione futuro. Ben peggior il dato emerso dalla ricerca del portale Infojobs.it, che ha cercato di capire se le nostre aziende abbiano strutture interne dedicate al Talent Management: solo il 16% del campione ha risposto di sì. Politiche innovative per la gestione e la valorizzazione delle eccellenze del capitale umano: cosa sono? Al di là dei milioni di chiacchiere inutili che si producono in questo Paese declinante, certi dati parlano da soli. In Italia il talento non interessa: dà semplicemente fastidio, viene considerato una perdita di tempo. Sempre secondo la stessa indagine, solo il 41% delle aziende intervistate corrisponde ai talenti uno stipendio più alto, rispetto agli altri lavoratori. Mentre Google vara un aumento a tutti i suoi 23mila dipendenti (esagerati!…) per evitare una pericolosa fuga di cervelli, nel piccolo mondo italico non sanno neppure valorizzare i più bravi. Né li sanno riconoscere. Ma dove pretende di andare, un Paese così?

Un Paese dove, non dimentichiamolo, l’unico welfare che funziona è quello della famiglia, depositaria dell’ultima “linea Maginot” degli ammortizzatori sociali. Ma fino a  quando?… si chiede persino uno studio di Bankitalia, che mette nero su bianco come -nella Grande Crisi- i “figli” abbiano contribuito per quasi il 70% alla variazione negativa del tasso di occupazione complessivo. E dove hanno trovato rifugio, questi figli? Ovviamente in famiglia. D’altronde non è un caso se la ricchezza delle famiglie copre per 4,3 volte il debito dello Stato. E dove stanno i soldi delle famiglie italiane? In banca. Per questo ora capirete come tutti i partiti, da qualche tempo -a partire dalla “rivoluzionaria” Lega Nord- abbiano messo gli occhi sulle banche, vere depositarie del tesoro di questo Paese. Trovando persino banchieri amici. C’è da preoccuparsi.

E’ un “Paese solido”, questo? Difficile rispondere all’affermazione così sicura del Ministro Giulio Tremonti. Personalemente, col livello di debito che ci troviamo, starei attento a pronunciare frasi un po’ avventate. Tremonti cita la solidità finanziaria delle famiglie e le banche come pilastri di questo sistema. Infatti la politica ci ha già messo gli occhi sopra, come abbiamo appena detto. E poi non dimentichiamoci che -secondo il Centro Einaudi- avremo bisogno di cinque anni per recuperare i livelli di Pil pre-crisi. Senza contare i ritardi strutturali, fin qui elencati, che hanno finito per emarginare dalla società le nuove generazioni. Quelle più pronte ad affrontare la sfida della globalizzazione. Peccato che vent’anni di “non Governo” abbiano ucciso la politica industriale, facendo fuggire dal Paese interi comparti produttivi, dove è più richiesta la presenza di capitale umano qualificato (elettronica, ingegneria, chimica, farmaceutica, ecc.). Contemporaneamente, si pongono barriere di ogni tipo a chi vuole puntare sui settori dell’innovazione futura. Al solo scopo di garantire gli attuali monopolisti.

Giovani che lavorano gratis e sistema-Italia allo sbando: c’è da stupirsi se i primi scelgono di fuggire?

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