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di Giuseppe Panella*
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Forse l’ergastolo è un tema letterario molto meno frequentato, assai più trascurato di quello della pena di morte. L’ergastolo, nonostante la sua agghiacciante natura di fine pena mai, non risulta immediatamente sconvolgente come la visione degli uomini gasati, ghigliottinati, impiccati cui la letteratura (e poi il cinema) ci hanno abituati (in parte). Se la condanna per la pena di morte è quasi dovunque un dato acquisito (anche se in realtà non mancano frange di forcaioli che ne giustificano e ne esaltano l’utilizzazione e ci sono paesi in cui essa non solo non è stata abrogata ma ne viene fatto un uso intensivo), per l’ergastolo il rifiuto e il rigetto di questa pena disumana è sicuramente assai meno sentito e praticato. Come scrive Alberto Laggia nella sua Introduzione alla raccolta:
«Così la galera-tomba diventa, per l’autore, un mostro, un essere capace di uccidere, come e peggio degli omicidi che tiene rinchiusi. Il carcere si trasforma in un incubo senza possibilità di risveglio: è “l’assassino dei sogni” che “odia la felicità e la speranza, e usa le sbarre, i blindati e i cancelli per non farle entrare”. E l’ergastolo è la pena di morte… viva. Che non ti permette di “scontare” la pena, pur scontandola nel modo più duro, perché “scontare” significa “estinguere” un debito ma, in questo caso, il debito è sempre pendente per intero, come il macigno di Sisifo, che non si ridimensiona al trasporto successivo. E ogni alba dietro le grate, quindi, è sempre e soltanto un nuovo inizio di pena» (p. 16).
Carmelo Musumeci è un condannato all’ergastolo detto ostativo perché, sulla scorta della legge 356 del 1992, non gli sono concessi quei benefici (sconti di pena, regime di semilibertà, possibilità di lavoro fuori del carcere ecc.) che, invece, bene o male, danno una speranza di vita “normale” agli altri ergastolani. Pur condannato al regime dell’articolo 41bis (la legislazione carceraria che si applica ai mafiosi “non-pentiti” e non-collaborativi con gli organi di giustizia), il giovane carcerato, arrivato in cella praticamente un semi-analfabeta, ha cominciato a studiare, conseguendo un titolo di scuola media superiore (nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara), iscrivendosi poi all’Università di Perugia dove ha già conseguito la laurea triennale in Scienze Giuridiche e sta per concludere il suo ciclo di studi con quella specialistica (Sociologia del diritto).
La sua vicenda ricorda molto quella di altri detenuti sfuggiti alla morsa distruttiva del carcere (esemplare quella di John McVicar, noto rapinatore inglese divenuto in carcere studioso della sociologia delle sub-culture criminali e poi soggetto anche di un bel film di Tom Clegg del 1980, interpretato da Roger Daltrey).
Dopo gli studi giuridici, l’approdo alla letteratura: del 2011 è il romanzo Zanna blu (sempre per l’editore Gabrielli) e del 2010, invece, sono questi sette racconti di “ordinario ergastolo” preceduto da un breve schizzo autobiografico sulla sua infanzia e adolescenza in Sicilia.
Sono tutte narrazioni di vicende di ergastolani in bilico tra la fuga e la “morte civile”, tra l’accettazione della pena e il suo rifiuto attivo, tra la rabbia contro la ferocia di secondini spesso solo degli aguzzini spietati (e, quindi, soprannominati variamente Hitler o Mussolini) e la fuga all’interno di se stessi (come avviene in Il vagabondo delle stelle di Jack London).
Nel primo dei racconti, Gli uomini ombra (che dà poi il titolo all’intera raccolta) il tentativo di fuga di Pietro, Tiziano, Giosuè e Nicola fallisce fin da subito per un errore di impostazione del progetto (nonostante i quattro abbiano come ostaggio il temuto secondino detto Hitler che dovrebbe garantire che li stanno soltanto trasferendo, le guardie si rifiutano di aprire il cancello principale) – tre di essi moriranno, il quarto resterà in carcere legato dai suoi stessi compagni di cella perché ha ancora una speranza di vita che risiede nell’amore (rimasto intatto nel tempo) della moglie.
Nei restanti racconti (più brevi, quasi prove generali del primo) va sempre a finire male tranne che in La fuga perfetta dove almeno uno degli ergastolani, Andrea, riesce a evadere con l’aiuto della moglie mentre i suoi compagni d’evasione muoiono crivellati dalle pallottole dei mitra delle guardie di cinta muraria.
A prescindere dalla qualità letteraria dei testi (che non sempre è adeguata alle intenzioni del loro autore), quelle che risultano veramente interessanti in questo libro sono alcune riflessioni sulla psicologia degli ergastolani. Non tutti sono come Jean Vajean in Les Miserables, ovviamente, ma molti gli assomigliano psicologicamente. Tutti (o parte di loro) restano dei ribelli per tutta la vita:
«Il ribelle è ribelle perché ogni altro modo di esistere gli è impossibile. Il resistente cessa di resistere quando non ha più i mezzi per farlo. Il ribelle, anche in prigione, continua ad essere un ribelle. Ecco perché se può dirsi perdente, non può mai dirsi vinto. Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma mai il mondo potrà cambiare i ribelli. Il ribelle può essere attivo o contemplativo, uomo di cultura o d’azione. Sul piano strategico, può essere leone o volpe, quercia o canna. Ci sono ribelli di ogni sorta, e ciò che hanno in comune è una certa capacità di dire no. Il ribelle è colui che non cede, colui che rifiuta, colui che dice: non posso. E’ colui che disdegna ciò che cercano gli altri: gli onori, gli interessi, i privilegi, il riconoscimento sociale. Al tavolo da gioco è colui che non gioca. Lo spirito del tempo scivola su di lui come pioggia sui vetri. Spirito libero, uomo libero, per lui non c’è nulla al di sopra della libertà. E’ la libertà stessa. “E’ ribelle”, scrive Jünger, chiunque sia messo in rapporto con la libertà dalla legge della sua natura”» (p. 36)
(e, infatti, gran parte di questa argomentazione di Musumeci deriva dal Trattato del ribelle di Ernst Jünger del 1952).
Pur essendo un libro ancora imperfetto nelle sue dinamiche narrative, questa raccolta di Musumeci è, tuttavia, una testimonianza preziosa del fatto che anche oltre le sbarre è possibile continuare a vivere e a sperare che la “griglia” non sarà mai “completa” tanto da impedire a chi è ridotto alla condizione di “uomo-ombra” di pensarsi ancora come un uomo “reale” e non soltanto un “Fantasma di Stato” che non ha identità né futuro né volto visibile al di fuori dello spioncino della propria cella. Gli uomini ombra indica all’attenzione dei suoi lettori un problema che la letteratura non può risolvere ma solo contribuire a sciogliere. Una questione di rapporti tra gli uomini che solo la politica (come ammonisce Giovanni Russo Spena nella sua postfazione) può affrontare compiutamente e radicalmente. Ma nel frattempo, il faut tenter de vivre (Paul Valéry, Il cimitero marino)…
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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