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di Giuseppe Panella
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Tre vecchiette, Wilma, Annunziata detta Nunzia e Mafalda (tutti nomi d’antan – come si può vedere) che abitano a Bologna in una (inesistente) via Damasco in un complesso di case di edilizia popolare e sono note come le Sultane, sono al centro di un romanzo di cui è difficile stabilire genere e profilo narrativo. La vicenda parte apparentemente come una storia di ordinaria mestizia e solitudine con protagonista la difficile “terza età” degli italiani medi, prosegue – sempre apparentemente – come un noir e termina con un finale (diciamo così) aperto.
Ma nessuno di questi suoi tre segmenti narrativi basta a definire l’andamento effettivo della storia.
Per riuscire a darne una definizione esaustiva forse bisognerà cominciare dall’inizio, dall’esergo cioè : “Bisogna immaginare Sisifo felice” (Albert Camus, Il mito di Sisifo del 1942). Il che ovviamente non è possibile : portare il peso della propria vita su per l’erta montagna da cui rotolerà di sotto sempre e comunque come il masso che il re di Corinto fu costretto da Zeus a trascinare in alto con il suo petto per punirlo della sua eccessiva astuzia nei suoi confronti non è soltanto una metafora dell’umanità condannata a vivere la propria esistenza di sempre. Ma se Sisifo accetta la sua condizione di infelicità (come accade alle tre vecchiette protagoniste del romanzo di Marilù Oliva riguardo alla propria) anche la sua dannazione – che pure permane – perde il suo carattere spaventoso e si alleggerisce, diventando qualcosa di cui, alla fine, si può forse perfino sorridere.
Wilma, accanita viaggiatrice di commercio in lenzuola e stoffe che vorrebbero essere fini e preziose ma non lo sono, ha due grandi crucci nella vita, due pesi da portare sempre : la morte dell’amato figlio Juri in un incidente stradale motociclistico (un classico esempio di “strage del sabato sera”) e i feroci dissapori con la figlia Melania che l’hanno spinta ad allontanarsi da casa e andare a vivere in seno a una comunità di sbandati che si dicono satanisti (ma che, in realtà, sono innocui e assai poco diabolici, tutto fumo e niente arrosto, a differenza di altre affiliazioni consimili).
La figlia si presenta spesso a casa con la biancheria da lavare, con un tatuaggio sul collo che raffigura una svastica (nonostante il vigoroso passato antifascista della famiglia) e con una fama vigorosa e arretrata – poi litiga, spesso per via di un cane molesto, e se ne va sbattendo la porta.
Wilma piange molto (e lo fa troppo spesso sicuramente), invoca il nome del figlio, ma resiste perché vuole comunque portare a termine il progetto esistenziale che cova dentro di sé da moltissimo tempo e che non riesce a realizzare per mancanza di denaro.
Annunziata detta Nunzia (chiamata così lungo tutto l’arco del romanzo) è una cattolica praticante, una beghina piena di desideri repressi con una figlia, Betta, che non si confida con lei perché non si riconosce nei suoi valori di vita e nella sua fobia patologica per tutto ciò che ha a che fare con la morte e le bare ma che la madre crede legata alle sue stesse credenze e alla sua stessa religiosità a metà. La donna, infatti, pur proclamandosi religiosissima, accetta tranquillamente di trasgredire a ciò in cui dice di credere e, nonostante si dica dedita alla rinuncia e all’ascetismo, spesso e volentieri mangia dolci che non dovrebbe assumere affatto (ha il diabete) e ha pensieri troppo peccaminosi per una signora così anziana. Inoltre la presenza del fratello Casimiro, alcoolista impenitente e cialtrone, aspirante dongiovanni senza mezzi ma molestatore disinibito di signore e anche di ragazzine (come era accaduto con la nipote Betta) le permette di ostentare una vocazione al martirio che è ben lungi dall’essere reale. Nunzia è un’ipocrita ma (sembrerebbe almeno) lo è in buonafede e la sua fede è autentica – solo che appare mescolata un po’ troppo alla superstizione popolare e alle paure ancestrali della sua infanzia per essere accettabile oggi e rischia, quindi, il ridicolo. E’ un personaggio, in sostanza, anche fisicamente del tutto grottesco.
Come Wilma racchiude all’interno di sé le chiavi del patetico come atteggiamento esistenziale, così Nunzia è costruita a partire da scelte linguistiche che la rendono un po’ caricaturale e sicuramente legato alla tradizione del grottesco.
Anche il personaggio di Mafalda può essere, in effetti, considerato come grottesco ma la sua avarizia e la sua scelta del risparmio più selvaggio ed esasperato la rende qualcosa di più e così acquista un’aura di fosca grandezza, da personaggio balzacchiano (alla Gobseck, ad esempio, o alla Grandet) che le altre non hanno.
Anche il suo amore per il denaro malguadagnato e stentato a costo di privarsi del necessario la avvolge in un alone che non ha più niente di umano (e, infatti, nel corso del romanzo, si rivelerà anche spietata e cattiva quando sarà necessario e non, usando la violenza con determinazione e abbondanza rilevanti per una donna così anziana) :
«Mafalda è la donna più spilorcia sulla faccia della Terra. Per lei la tirchieria non si limita a condizione esistenziale : slitta a vocazione intimissima e sport agonistico. Nonostante la sua istruzione si sia fermata alla quinta elementare, ha affinato la capacità di calcolo tanto da stabilire all’istante percentuali, somme e sottrazioni : una calcolatrice umana di settantacinque anni, In casa sua scorre tutto all’insegna del risparmio, dai tovaglioli di carta, spezzettati in quattro parti e riutilizzati finché non si sciolgono, al detersivo per piatti diluiti con acqua. Idem il sapone liquido, che la donna centellina facendosi il bidet un giorno sì, due no. La sua maestria nel riciclare l’acqua è diventata leggenda, in zona. Si mormora infatti che “l’acqua di Mafalda resuscita sette volte” : dapprima la impiega per bollirci i maccheroni, quindi scola e ci cuoce le patate o le uova. Poi la fa intiepidire per mondarci le verdure. Metà la recupera nel lavello e ci aggiunge detersivo per i piatti da lavare, metà la versa in una catinella per i panni a mano : quella rimasta la impiega nel secchio dello straccio per il pavimento. Il residuo finale è destinato allo sciacquone del water, il cui fondo giace perennemente torbido. Trascorre le mattine nei supermercati scegliendoli sulla base dei dépliant ricevuti in buchetta – dépliant che diventano straccetti per pulire i vetri o, quando sono molto colorati, si riciclano come carta regalo per gli unici doni che si trova costretta a fare almeno due volte all’anno ai nipotini : per Natale e per il compleanno»1.
L’avarizia di Mafalda, di conseguenza, è epocale e destinata a passare alla leggenda. Moglie di Giorgio, ormai sprofondato nell’abisso senza ritorno della malattia di Alzheimer, donna fin troppo frugale e capace di lesinare anche sui regali per i suoi due nipotini, i figli di Ugo, unico rampollo rimasto in Italia (l’altro, Mathias, si è rifugiato negli Stati Uniti), dedita forsennatamente all’accumulazione di denaro e di oggetti anche deperibili non si sa bene perché, la sua scelta di vita è radicale : spendere il meno possibile e scroccare agli altri quanto più si può.
Delle tre Sultane, Mafalda è sicuramente la più pittoresca ma, contemporaneamente, giganteggia sulle altre due per determinazione e ferocia economica.
Al suo cospetto, gli avari classici della tradizione plautina e dickensiana si ritraggono e si inchinano di fronte alle sue scelte di risparmio assoluto e di ricerca di beni di consumo da farsi regalare dagli altri. Quindi, dopo aver analizzato i tre principali personaggi della storia e cercato di illuminarne i complessi rapporti con “parenti, affini e casigliani”, la trama si sviluppa tra frequenti e avventurose partite di scala quaranta e numerosi colpi di scena che non sarà per niente bene anticipare al lettore.
Bisognerà dire, però, che nel plesso di case popolari Iacp di via Damasco, nello stesso blocco in cui vive Wilma, abita anche una certa Carmela Pennascia, figlia di due ex-immigrati siciliani che se ne sono tornati in patria, lasciando, però, sul posto la figlia a tenere la posizione nel caso l’abitazione possa essere riscattata per diritto di prelazione in futuro. La ragazza è parecchio sconclusionata, rumorosa, ama fare le ore piccole durante le quali si congiunge carnalmente e con ripetuta frequenza con un senegalese, Boubacar detto Bubi, dal quale ricava un godimento estremo la cui potenza non può fare a meno di comunicare a tutto il vicinato. Stufa di dover sentire ogni notte le grida di piacere e il fracasso fatto da Carmela e Bubi, Wilma decide di andare dalla giovane donna e “dirgliene quattro”… Parte da qui un intrigo sensazionale e orroroso che sembra uscito da un romanzo del miglior Stephen King e che coinvolgerà fino alla fine Mafalda e Wilma quali amiche e complici. Romanzo di un’amicizia tra donne appartenenti alla terza età, Le Sultane non è un romanzo di genere (anche se ripetutamente ammicca al pulp) né un tentativo di analisi sociologica di una condizione fin troppo frequente anche in Italia ma un fuoco pirotecnico di situazioni tra l’assurdo e il grottesco, scritte con un linguaggio del quotidiano che allude e mima quell’impasto tra il dialetto e la lingua della koinè che ormai tutta l’Italia si ritrova a parlare forse senza saperlo.
NOTE
1 M. OLIVA, Le Sultane, Roma, Elliot, 2014, p. 14.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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