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di Giuseppe Panella
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Un biancore lontano è il primo libro di poesie di Adriana Gloria Marigo, pubblicato dopo molte riflessioni e una lunga attesa nel 2009. E’ un libro di esordio, certamente, ma che mostra già i caratteri di una maturità linguistica e umana che possono farla considerare alla lettura ben lontana dall’essere un’ “esordiente assoluta”. In questo breve ma succoso grappolo di versi, la densità dei richiami e dei riferimenti, in particolare alla cultura classica e alla mitologia, è tale da imporsi come cifra della scrittura stessa della Marigo. Proprio quel “biancore lontano”, allora, è l’emergenza culturale di un progetto poetico che vede nella scelta a favore della natura e nella passione d’amore vissuta e sofferta il suo punto di riferimento essenziale.
La ricerca della poetessa, tuttavia, non si basa soltanto sulla volontà di trovare una chiave interpretativa del mondo e delle sue contraddizioni lampanti e conclamate ma proprio sull’esplorazione di esse. Ne è la spia un breve testo programmatico di poetica quasi esplicita posto praticamente in apertura del volumetto e situato, quindi, subito dopo la poesia che gli dà il titolo
«Non è la luce distesa e / continua a darci conoscenza. / E’ l’intermittenza, / o l’improvviso bagliore di altro / – luminoso – che schiarisce lo spazio / consueto, l’angolo remoto, / il varco dimenticato»1.
L’idea di fondo della ripresa poetica della Marigo è proprio questa : la verità non si può ritrovare tutta intera né campisce luminosamente all’interno di una soluzione definitiva legata alla potenza della ricerca iniziata ma è frutto di una cernita casuale dei dati, al loro balenare in intermittenza indiretta, alla loro indeterminazione non riportabile a una direzione statisticamente rilevata, alla incerta e indefinita elaborazione delle conoscenze che si accumulano a mano a mano, in luoghi sempre diversi e con soluzioni sempre differenti rispetto al punto di partenza.
Si tratta, proprio per questo motivo, di trovare e chiarificare “l’angolo remoto, / il varco dimenticato” (qui con forte eco montaliana dagli Ossi di seppia), di unificare incertezza e volontà di verità assoluta per produrre un effetto di lontananza dalle certezze assolute e rivendicate dai più che si spinga più lontano da esse alla ricerca del filo insicuro, ma più inquietante e affascinante, dell’orizzonte del mondo. Il “biancore lontano” è, nelle linee stesse della poesia della Marigo, quel possibile orizzonte di verità che ne definisce lo scarto e le potenzialità.
Altri testi poetici dalla stessa raccolta chiariscono questo punto di vista volutamente defilato e posto fuori dal contesto tradizionale della ricerca della Verità come forma assoluta della pratica poetica :
«LA PAROLA DELLA NOTTE. Scrivere di notte è un mondo altro / di parola dallo scrivere di giorno. / I pensieri sono globi rotanti, si muovono / liberi nel luogo che dilata. Senza sentire, / Pensiero e Tempo viaggiano nel solo andare. // La luce del giorno distrae, / distrae il rumore. L’inchiostro usa / il confronto. Soppesa. Sacrifica / spontaneità e intuizione alla grandeur / presunta della mente. Sola, // la parola della notte / lascia sparsi a terra i frammenti del mattino / pronti a rifluire nel dolore d’ogni segno»2.
La notte è qui ovviamente significativa metafora della poesia come momento di immersione nel non-sapere che si rivela, nel momento in cui manifesta la propria assoluta libertà d’azione lirica, l’unica forma di concentrazione capace di dare spessore conoscitivo alla scrittura poetica. La “parola della notte” non è la notte della parola ma la luminosità (“il biancore lontano”) oscura del giorno che rende conto della capacità della vita a mostrare i propri aspetti più significativi.
Questa ricerca di un segno opaco ma proprio per questa sua caratteristica ben più lucido e capace di rendere conto di ciò che il pensiero vuole significare mediante i moventi profondi della scrittura scavandola all’interno si manifesta in tutta la sua interezza nella successiva raccolta della Marigo e cioè L’essenziale curvatura del cielo, che si rivela un notevole passaggio linguistico e lirico rispetto al libro precedente e un approfondimento notevole dei temi già presenti in esso.
Perché il cielo risulta curvo allo sguardo e non appare, invece, piatto come l’orizzonte che lo misura e lo definisce? Perché il cielo avvolge il mondo e lo conserva nella sua luminosa capacità di apparire perfetto nel momento in cui è visto con gli occhi ingenui del poeta.
Vedere significa cogliere gli aspetti più significativi della realtà e non tutto ciò che essa presenta nell’ampiezza delle sue potenzialità ; vedere significa scegliere – lo stesso di quello che fa la poesia
e che in essa si manifesta :
«STANDO NEL MIO ESSERE ULTIMO. Vado per analogia e / volizione / alternanza di ascolto / inclusione / esclusione / passaggi di luce e / barena di oscurità. // Mi basto e contrasto. / Forse gioco»3.
Dove la parola-chiave è barena, queste misteriose formazioni di terra all’interno della laguna veneta che compaiono e scompaiono periodicamente per effetto delle maree.
Il loro emergere e il loro successivo dileguarsi, la loro sopravvivenza come insiemi di ecosistemi vegetali sulla base del loro “suolo salso” che gli permette di mantenersi comunque in vita nonostante la difficoltà a conservare le proprie e originarie forme di sviluppo primigenio, la loro funzione di conservazione dell’equilibrio naturale all’interno della laguna sono il segno della loro spontanea produzione di una dimensione ecologica che le rende indispensabili in quel contesto.
La “barena di oscurità” così sapientemente evocata dalla Marigo è la forma di dimensione lirica che ha scelto come manifestazione del suo bisogno di comunicare attraverso la poesia il suo fondamentale bisogno di vivere le esperienze fondamentali dell’esistenza con l’aiuto della scrittura.
Insieme alla “barena” come metafora dell’emergenza della poesia, il libro contiene altre metafore forti e sostanziate di rappresentazione poetica. Ne è testimonianza anche questa lirica successiva :
«QUANDO LA STAGIONE. Quando la stagione s’alza in canti / fin dentro la notte e / l’aria è mutamento / mi scheggio come selce : / lame al limine / di ogni mia fattezza»4
dove l’assonanza tra “lame” e “limine” permette di cogliere la qualità della ricerca linguistica della Marigo. Le “lame” raffigurano icasticamente il lavoro di scavo e di insediamento all’interno della soggettività (l’affilata volontà di trovare il punto più profondo a costo di penetrare dolorosamente in se stessi) e il “limine” è appunto il punto estremo del ritrovamento di una ragione d’essere durante quell’operazione di indagine interna, Il punto di riferimento di questa operazione è il Tu al quale la poetessa continuamente si rivolge e che forse non è soltanto l’Amore (come pure sostiene Eros Olivotto nella sua notevole Postfazione al volumetto) ma qualcosa di più : l’aspirazione alla totalità umana (Uomo + Natura, infatti, come sintesi possibile e auspicabile di una simbiosi armonicamente compiuta e compendiata tra questi due aspetti dell’Essere) e la sua possibile realizzazione come forma espressiva della potenzialità di ricerca poetica perseguita e conseguita.
Il Tu forse non è tanto l’Amore (astratto o incarnato in qualcuno) quanto la sua realizzabilità sotto veste di una mente poetica che abbraccia cielo (la sua “curvatura”, allora) e terra in una volontà di inabissamento in essi per riuscire a trasformare e modificare se stessi.
Se Olivotto giustamente sostiene la natura rivoluzionaria del sentimento d’Amore profuso nel testo in maniera da permearlo tutto e di mutare nel corso del mutamento stesso e afferma poi che:
«Solo se siamo disposti a perdere, a perderci, l’amore si trasforma in quel qualcosa che ci permette di cambiare»5,
è anche vero che quel sentimento stesso non sarebbe possibile senza la scelta della poesia come forma di comunicazione assoluta (straziata, straziante ma anche emanazione di una gioia interiore che trasfigura e salva).
NOTE
1 A. G. MARIGO, Un biancore lontano, Faloppio (Como), LietoColle Edizioni, 2009, p. 12.
2 A. G. MARIGO, Un biancore lontano cit. , p. 23.
3 A. F. MARIGO, L’essenziale curvatura del cielo, postfazione di Eros Olivotto, Milano, La Vita Felice, 2012, p. 17.
4 A. F. MARIGO, L’essenziale curvatura del cielo cit. , p 34.
5 A. F. MARIGO, L’essenziale curvatura del cielo cit. , p. 62.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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