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di Giuseppe Panella
La neve esercita il proprio fascino in maniera insistente, segreta, musicale, attonita. Viaggiare attraverso distese di neve che coprono chilometri e chilometri di territorio apparentemente vergine e inesplorato è più che un’esperienza di viaggio una dimensione nuova e sempre aperta dell’esistenza.
«Così dunque è la neve: essa cambia come una partitura, che è il cammino. La musica della neve invade le mie membra e io danzo. Se venite a fare il mio cammino, con le assi distese e la musica della neve che il nostro antenato delle terre bianche sentiva nel suo cammino, non sarà difficile comprendere che questa musica è il suono del silenzio che ci unisce nella condivisione. E’ la neve che muta nel corso delle ore dialogando con la luce e il clima; è la materia bianca da vedere con la gioia negli occhi, la neve capace di condurre l’uomo per vie sorprendenti che spesso passano per il desiderio di vita, amore e unità con quel qualcosa di infinitamente grande del quale facciamo parte» (p. 90).
Camminare e spostarsi nei territori innevati è, dunque, un’esperienza iniziatica che vale la pena di compiere comunque per ritrovare ed esplorare l’interiorità personale e scendere il più possibile nel profondo di se stessi. Quello della neve è un richiamo ancestrale che ritorna tutte le volte in cui essa viene vista un elemento fondamentale dell’esistenza e una sorta di collante tra i diversi stadi che la costituiscono. I vari momenti in cui è consistito l’incontro fondamentale con essa sono analizzati punto per punto dalla scrittura poetica di Sapienza. E’ il nodo centrale della breve ma intensa rapsodia che costituisce il libro. Non si tratta, nonostante la collana in cui è stato pubblicato, di un “libro di viaggio” bensì della descrizione di un’epifania che si apre con l’evento della neve e si chiude con la comprensione / dischiudersi del suo mistero profondo e totale. Di esso non si sapranno le ragioni ma solo la necessità che lo costituisce. La neve è la sostanza reale del mito che la rende una componente essenziale della vita umana. Sapienza non si nasconde questa realtà e la racconta con semplicità e coraggio di rischiare.
Mescolato al racconto di una sua lunga escursione in terra polare, durante un inverno di viaggi ed escursioni che lo porterà, per la prima volta, oltre i fatidici 66° 33’ Nord, il circolo polare artico quindi, Sapienza si sofferma a narrare la prodigiosa leggenda degli Ostyak della Siberia la cui principale divinità aveva deciso di cacciare l’alce con gli ski e che aveva inseguito l’animale nei cieli. Esso, stanco della fuga cui era stato costretto, disperando della sua sorte, aveva deciso di ritornare sulla Terra e aveva spiccato un salto gigantesco volando giù fino al suolo. Il dio degli Ostyak aveva continuato l’inseguimento e, infine, l’aveva raggiunto, La Via Lattea che si staglia luminosa nel cielo stellato che si specchia sulla Terra non è altro che la testimonianza di quella caccia eterna e archetipicamente sempre rinnovata in ogni tempo.
Stimolato dall’affinità elettiva tra stelle e neve che quella leggenda gli aveva dato la possibilità di intuire e che lo aveva affascinato, Sapienza si perde nella contemplazione del cielo che lo avvolge incombendo su di lui ed evoca la Siberia innevata e le distese di conifere che la popolano, ricordando, tra l’altro, Dersu Uzala – Il piccolo uomo delle grandi pianure del 1975, uno dei capolavori cinematografici di Akira Kurosawa. Mentre è assorto nella logica e nella musica dei ricordi e delle evocazioni da essi prodotti, esplode sullo sfondo al limite del suo orizzonte la nordlys, l’aurora boreale, con tutta la bellezza della sua potenza smisurata e lucente.
La neve con tutte le sue possibili e luminose epifanie gli permette la visione di un mondo che è ben diverso da quello della quotidiana esposizione alle luci e ai colori usurati dall’artificialità della compiuta umanizzazione del creato, dalla completa antropizzazione della realtà.
Sapienza sa giocare bene con le emozioni che la neve gli suscita e che, a sua volta, egli sa suscitare nei suoi lettori. La vita dei microcosmi che giacciono sotto la coltre nevosa gli fa pensare ad analogie straordinarie con altri elementi della vita della natura, ai confronti più azzardati con il mare e la sabbia del deserto, alla natura metamorfica, multiforme e magica dei fiocchi bianchissimi che ricoprono la vita invernale che attraversa nel silenzio irreale della notte senza fine del circolo polare. L’esperienza dell’attraversamento del deserto di ghiaccio circonfonde l’esperienza compiuta dall’esploratore artico di una luce mitica che rende possibile valutare la sua impresa come uno sprofondamento vertiginoso nella propria soggettività. Camminare nella neve fa emergere sentimenti fino ad allora rimasti nascosti e li qualifica come profondità insondate della sua realtà personale e della sua vicenda soggettiva:
«Agli occhi di chi corre sulle vie del mondo, forse sfugge il lento scorrere dell’inconscio di fronte all’immensità della terra. Questo flusso è un cammino che non può essere soggiogato alle ore dell’uomo e ogni volta che sono troppo impegnato a pensare a me stesso, accelero il passo e mi capita di perdere il segnale perché correre rende la terra più piccola e il tempo più incombente. Ci sono attimi in cui il cammino ci parla e rendere veloce un cammino nato per svelare qualcosa ci illude e ci inganna. La materia bianca, in apparenza immutabile, è l’orizzonte in gioco – lo svelamento di questa profondità che si fa superficie per attrarmi sulla nuova terra dove viaggio come un’emozione che traccia un percorso» (p. 28).
L’orizzonte del cammino è il cammino stesso e l’esperienza compiuta mediante il percorso portato a termine alla fine del viaggio è la forma originaria di ogni conoscenza.
Per questo motivo, la neve risulta così fondamentale nella costruzione della soggettività che si propone come protagonista al centro del breve testo di Sapienza. La sua impalpabilità si coniuga con la sua continuità nel tempo e nello spazio fino a congiungersi con la durata implacabile della natura che l’uomo non conosce se non parzialmente, per tagli trasversali di verità, per assaggi e traversate parziali del suo mondo ancora incontaminato, nonostante la colonizzazione umana.
Il viaggio compiuto nella neve e nei suoi soffici meandri, nel labirinto gelato del suo essere, è sempre un progetto di scoperta assoluta, un tragitto nuovo e inedito.
Il paesaggio innevato è il teatro del sogno nell’ottica di Sapienza – è il luogo nel quale le verità e le illusioni si congiungono e si rafforza la loro capacità di investire gli uomini di un destino comune, in grado di illuminare il loro mondo interiore, la loro possibilità di trovare una ragione di vivere.
Nella neve tutto appare trasfigurato da una nuova luce, dalla rinnovata possibilità di vedere la natura e gli esseri umani con lo sguardo di una felicità assoluta e non più corrompibile.
In essa le imprese più azzardate, gli eventi più rischiosi, la minaccia della morte (per congelamento, per inedia, per l’insorgere di un caso fortuito e non prevedibile) acquistano lo statuto di una necessità e di una realizzabilità ai limiti dell’umano. Sapienza è alla lettera affascinato dai grandi viaggi di scoperta polare, dalla ricerca esclusiva e spesso straordinariamente ed epicamente maniacale di uomini come Roald Amundsen, Edward Shackleton, Robert Scott, Edmund Peary, Arthur Cook e soprattutto come Fritjof Nansen, interamente dediti all’allestimento di spedizioni per la conquista dei Poli. La sua visita al Fram Museum di Oslo è significativa della vocazione di scrittura di Sapienza e spiega la redazione del suo libretto sulla musica della neve sia stato tutto un work in progress, il frutto di una serie di occasioni nel corso del tempo che gli hanno permesso di trasformare sparse annotazioni manuali su quaderni di appunti in un libro compatto e strutturato:
«Nel giugno 2000 andai al Fram Museum di Oslo (la casa del più solido vascello polare al mondo, si legge sul sito). Il Museo è la Fram che galleggia nel mare: intorno e sopra di lei è stata costruita la struttura museale. Annotai. “ […] sono stato per alcuni minuti fermo sul ponte della Fram. Ho fatto attenzione. Ho sentito. Ho ascoltato. Nessuno di loro è mai morto”» (pp. 75-76).
A Sapienza la visita della Fram (Avanti!) appare come un’esperienza di vita e un’ipotesi di lavoro esistenziale e io stesso che, come lui, ho compiuto, affascinato e coinvolto, la stessa discesa all’interno della nave di Nansen non posso che concordare. Il rapporto con il mondo cambia quando tra un uomo e la neve non esiste più la paratia stagna delle abitudini cristallizzate dal e nel tempo che è passato ma si apre uno spazio nuovo, un’Aperto che è quello della vita futura.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)