Pubblicato da giuseppepanella su maggio 16, 2012
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di Giuseppe Panella*
La passione del calcio non è un romanzo e neppure un testo esclusivamente autobiografico (nonostante il sottotitolo del libro lo dichiari tassativamente). E come potrebbe? Le confessioni e le descrizioni delle proprie passioni non sono mai reali ma sempre sognate, rivissute, rivisitate. Si tratta, in realtà, di una lunga ricostruzione, a tratti assai lucida e perfino con intensità fotografica, a tratti quasi coperta dal buio della mancanza di ricordi e di punti di riferimento, di un periodo di storia nazionale convissuta con tanti altri appassionati di calcio e rimasta forse realmente consapevole per pochi. Non c’è solo il pallone, infatti, in questa breve confessione-saggio di Franz Krauspenhaar: in essa trascorrono brevemente, per flash e per esplorazioni oniriche, momenti molto significativi del passato ormai non più tanto prossimo dell’Italia che è stata.
«Il calcio è una passione collettiva che si scarica nell’individuale. E’ come se gli appassionati, i malati di calcio, fossero tutti innamorati nel medesimo tempo, ma di persone che si fanno la guerra tra loro. E’ il tifo, un’invenzione che diventa malattia cronica. E’ l’amore che dura una vita. “Mai cambiare squadra”, così si dice. “E’ un controsenso, anzi un atto contro natura”. Ma no, sappiamo bene che si può cambiare squadra per opportunismo. Ai piani alti, c’è qualcuno che abbandona la moglie per l’amante. Un’amante prezzolata, non c’è dubbio. Io sono stato uno di quelli che ha tradito. Sì, lo confesso. Ma non è stato per opportunismo, bensì per qualcosa di molto diverso. Qualcosa che toccava il cuore» (pp. 13-14).
Il primo amore calcistico di Krauspenhaar è stato El Cabezón, Omar Sivori, allora in forza alla Juventus ma la passione più duratura (e ne è testimonianza il capitolo finale del libro, Maradona sketches) è tuttora quella per Diego Armando Maradona, il Pibe de Oro (anch’esso argentino e campione del mondo nel 1986), probabile figlio calcistico del grande fantasista juventino (e poi napoletano). Il calciatore di Lanús personifica il calcio con tutta la sua grandezza e le sue follie, con la sua capacità di incantare e stupire per la bravura tecnica e agonistica e, nello stesso tempo, lasciare perplessi per gli errori madornali commessi nella vita pubblica e privata.
«Per questo voglio concludere questo mio viaggio nella passione del calcio con colui che la passione per questo gioco l’ha personificata. Con un uomo che è stato genio, sregolatezza, errore. Quasi imperdonabile. Che è stato baciato dalla fortuna ma anche frustrato da un masochismo di fondo, da una fame di riscatto che era ed è fame di vita. Da una disperazione di sempre che credo sia necessaria per affrontarsi fino in fondo, e superarsi. Con lo sperpero, la caduta, la risalita, l’estro immenso e la stranezza, l’autogestione di un’esistenza spesso strampalata. Maradona è il calcio nel suo essere tutto e il contrario di tutto. Gioco e passione, cattiveria e bontà, meschinità, furbizia, estro, fantasia, cuore. Generosità. Maradona è il calcio che rimbalza dentro di noi, è l’epitome di questo folle movimento mondiale» (pp. 149-150).
Se le squadre di calcio dei diversi club che fanno il bello e il cattivo tempo nel grande circo dei diversi campionati nazionali e internazionali non fossero diventati una sorta di variante di una possibile Legione Straniera della contemporaneità, ci sarebbe da commuoversi leggendo questa pagina di Krauspenhaar. Forse Maradona non merita tutto il pathos fatto riverbera sulla sua figura di atleta e di personaggio di cronaca ma sicuramente la sua epopea è stata straordinaria e roboante tanto da riempire di sé la cronaca dei giornali non soltanto sportivi.
Ma tra Sivori e Maradona corre un discreto intervallo di tempo – un periodo che vede il giovane appassionato di calcio crescere come appassionato di calcio, come persona fisica e morale e come soggetto capace di prendere decisioni anche dolorose ma incisive (come quella di abbandonare la propria squadra del cuore, il Milan, per ragioni di immagine politica in odio all’uso improprio fattone dal celebrato presidente di quella squadra, Silvio Berlusconi). Infatti, il piccolo Franz nel 1967 è interista (anche per effetto del contatto frequente con lo zio materno Gaetano che però era tifoso della Juventus, come gran parte dei meridionali trapiantati al Nord). Dall’Inter (ormai non più la grande Inter degli anni Sessanta), Krauspenhaar si attacca alla casacca bianconera per qualche tempo – quello di Sivori ormai non più all’altezza della sua fama dell’epoca d’oro – e approda al Milan. L’eroe eponimo della squadra milanese è, allora, Gigi Rivera definito in modo esemplare abatino da Gianni Brera (il “muscolare della macchina Olivetti” – come egli stesso si definì una volta). Il calcio giocato da Rivera è ben diverso da quello dei Sivori, Charles, Boniperti della Juve o dalla poderosa macchina da gol che aveva caratterizzato l’Inter dei vari Mazzola, Suarez e Mariolino Corso dell’era di Helenio Herrera. Rivera fa un calcio molto elegante, poco atletico, poco tecnico – però segna e spesso porta il Milan alla vittoria. Krauspenhaar si innamora della squadra rossonera ed è seguendola che va per la prima volta allo stadio: era il ’69/’70 e se campione d’Italia era stato il Cagliari di Rombo di tuono Luigi Riva il Milan vince la Coppa dei Campioni contro l’Ajax. Sono anni entusiasmanti quelli e certo non soltanto per il calcio: l’onda d’urto del Sessantotto attraversa l’Italia, le scuole, le fabbriche e le coscienze giovanili. Nonostante sia ancora piccolino, il giovane Franz ama il calcio e lo segue, lo interpreta e talvolta lo gioca (anche). Va in trasferta a seguire il Milan (una partita della Roma al Bentegodi di Veroni per squalifica del campo della squadra rossonera). Ma il Paese Italia è cambiato – all’entusiasmo morale e politico del Sessantotto-Sessantanove, alle lotte di fabbrica, all’esplosione di una politica partecipata a tutti i livelli subentra la cappa di piombo del terrorismo e della paura della guerra civile:
«Dunque quei Settanta furono la prosecuzione con altri mezzi di mille lotte fratricide fluite nei secoli, con la guerra civile della fine della guerra mondiale come ultimo tragico capitolo. A seguire, dopo le contestazioni del ’68, arrivarono le lotte politiche, gli omicidi e le stragi. Il terrorismo. In quel clima, il calcio di allora era il cupo trastullo di una popolazione impaurita. Un Paese che chiudeva presto le saracinesche. A Milano, dove vivevo e vivo tuttora, il centro era popolato di camionette della Celere. Quasi tutte stazionanti in piazza San Babila. Là c’erano state le lotte più dure tra estremisti di sinistra e fascisti, tristi figli delle camicie nere di salò, ragazzi vissuti nel mito dei loro padri o all’inverso, con padri democristiani o di sinistra, spesso ragazzi borghesi che portavano le scarpe a punta, famigerate, pericolose nel corpo a corpo col nemico rosso. Ed era facile cambiare casacca più volte, come gli ex-ragazzi di quella generazione sanno bene. […] Il tifo era cambiato, erano apparsi i club, le società non troppo segrete che muovevano i fili della malattia tremenda del tifo, ma anche certi equilibri, che erano i loggionisti parmigiani del catino di cemento d’ogni squadra» (pp. 70-71).
Ma tutto passa, anche le passioni più ardenti si attenuano. Il Milan finisce in serie B, vittima di una gestione assurda e stralunata di un’antica potenza calcistica. Ma anche Krauspenhaar si è disamorato e il suo amore per il calcio, forte nell’adolescenza, impallidisce, si piega, si riduce. Dissolvenza (come scrive lui stesso a p. 147). Nel mezzo, fino ai micidiali e sconclusionati Mondiali italiani del Sudafrica del 2010 persi malamente da una Nazionale già campione del mondo nell’edizione precedente, ci sono sprazzi d’interesse, trasferte, partite viste all’estero (una in Germania al Rheinstadion di Düsseldorf, un’Italia-Romania a San Siro), ritorni di fiamma, passioni improvvise bruciate in un tempo minimale in cui il calcio torna ad essere importante (o quasi).
Il calcio è forse oggi il nuovo”oppio dei popoli” (come la religione per un barbuto di due secoli fa)?
Secondo il defunto Manuel Vázquez Montalbán, un tempo anch’esso rigoroso marxista (linea Groucho) sì – secondo Krauspenhaar non è così o non è soltanto questo. Hanno ragione entrambi. C’è nel calcio una qual certa fosca grandezza che attira anche i suoi critici più rigorosi (come per l’appunto Vázquez Montalbán) e c’è un elemento di grazia e di bellezza atletica quasi mitopoietica che rende il gioco affascinante e irresistibile (pur nella consapevolezza che gli ambienti in cui si svolge sono spesso immondi, ammorbati da intrallazzi e da giochi di potere economico che non sono accettabili neppure turandosi il naso). Erede di una tradizione, quella gladiatoria, da cui ha mutuato interessi e idoli, miserie e splendori, personaggi loschi e campioni invincibili, il calcio è una delle forme di spettacolo più importanti in cui la società odierna si riconosce e si manifesta. E’ una passione che per molti giustifica la vita, per altri è un momento di evasione oppure di critica implicita alla società. Per Krauspenhaar è stato un momento importante della sua vita come la sua scrittura sinuosa eppure diretta e coinvolgente rivela e dimostra.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)