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I LIBRI DEGLI ALTRI n.32: Situazioni sempre provvisorie e intimazioni di assolutezza. Amelia Casadei, “Exodus”

Creato il 04 marzo 2013 da Retroguardia

Amelia Casadei, ExodusSituazioni sempre provvisorie e intimazioni di assolutezza. Amelia Casadei, Exodus, Firenze, Polistampa, 2012

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di Giuseppe Panella

 

«IL RITO. Nelle notti sacre all’estate, / fluttuano nell’aria / sacerdotesse alate / votate all’antico rito / di risvegliare l’amore sopito. / In quelle notti / brama lucente / mi scorre nel sangue» (p. 14).

 

Il lessico poetico di Amelia Casadei è forse scarno, rilucente e nitido come un’ala di corvo, composto e investito della secchezza delle sue affermazioni liriche che sanno di verità e di esperienza di vita. Il rito che si consuma regolare e opulento nelle notti d’estate, quando il clima si presta proclive e dolce all’escursione delle “sacerdotesse alate” che volano nel cielo ricco di presenze e di sogni, è quello dell’amore.

E’ l’amore come sostanza vibrante dei corpi ma è anche il sentimento che scorre, languido e vigoroso, nello spirito che si ricorda della sua necessità vitale, della sua capacità di irrompere nel mondo per fecondarlo e rinnovarlo. Tutta la poesia della Casadei è attraversato da questo anelito.

 Nonostante il lutto (evocato nel componimento che dà il titolo alla raccolta), nonostante desolazione e tristizia dell’esistenza quotidiana, la poesia si trova ad essere investita dalla sua necessitata volontà di ritrovare un oltre che non può limitarsi al presente o alla rassegnata accettazione dei suoi limiti. Il sentimento che erompe dalle liriche di questa raccolta, infatti, è quello della lirica evocazione dei sentimenti che ricompongono il mondo e lo squadernano ai quattro venti.

I diversi momenti puntiformi che lo giustificano, inoltre, si ricongiungono in un quadro che non ha giustificazioni in nessuna ideologia o quadro di riferimento che non sia la passione della parola.

L’ambizione della Casadei è quella di costruire una sorta di “rosa dei venti” dell’evoluzione poetica e portarla a compimento attraverso momenti, situazioni, spicchi di realtà rivisitati attraverso il ricorso a una possibile “parola assoluta” che ne rivendichi la funzione indicativa ed esplorativa.

Ne scaturiscono brevi testi dal taglio descrittivo e spesso lateralmente narrativo in cui esperienza di vita e scatto linguistico “alto” permettono alla scrittura poetica di farsi portatrice di sintomatiche verità. Nascono, in questo modo, versioni rapide e folgoranti di epifanie profonde come:

 

«ROSA DEI VENTI. Con cadenzati passi / mi avvicino al litorale dell’approdo. / Sarà la rosa dei venti / a sollevare il tuo ampio mantello / sono qui, ti sento, ti sento / avvolgimi, cullami…» (p. 42).

 

Il “mantello” che il vento deve sollevare è chiaramente, anche se la metafora è qui utilizzata in una dimensione di originalità feconda, il poeta che attende il vento dell’ispirazione o, meglio, quello della poesia che l’avvolga e la trasporti in un mondo altro rispetto a quello della quotidianità.

Ma i temi della poesia di Amelia Casadei non sono soltanto quelli  rivolti e focalizzati verso la sfera del Sublime (anche se non mancano esempi in questo senso) o sedimentati nell’ambito amoroso (come si è visto); non mancano anche gli accenni ad una quotidianità rivissuta in senso non fungibile ma orientata verso una sua giustificazione in chiave poetico-evocativa:

 

«NEL TEMPO. Nel salto con la corda / si sollevava festosa / la pieghettata gonna. / Il viso, malandrino, / sorridente / sgranocchiava l’aria del mattino / fra il mormorare dell’erba / e l’ombra del fico cinerino. / Di quel tempo / mi porto la dolcezza / che dava voce ai pesci» (p. 19).

 

Le felicità della memoria si innesta in un corto circuito conoscitivo dove i sensi permettono di confortare un rapporto con la Natura che non la emargina tra le cose passate ma la configura come uno sfondo musivo dell’anima che si ritrova nella sua assoluta permanenza (pur confitta nella caducità del Tempo). In questo modo, ciò che passa non passa realmente ma si conserva.

La brevità dei tragitti lirici della poetessa fiorentina permette di moltiplicarne gli esempi e gli assaggi. Memore della tradizione classica e del rifiuto del “libro” troppo “grande” nella prescrizione di Callimaco, la Casadei cerca di ritrovare nella misura dello sprazzo lirico, dell’illuminazione folgorante, del ricordo opacizzato dal pianto o dal sentimento di una grande gioia provata o semplicemente da una forte emozione, una possibilità espressiva che non cada nel prosastico e non si annulli nel puro e semplice appello al “linguaggio più puro della tribù” (come volle Mallarmè a guardia del suo presidio linguistico e con il quale da allora la maggior parte dei poeti lirici si sforza di presentarsi ai suoi lettori). Il progetto della Casadei, allora, è basato su questa ambizione.

Come ha scritto Franco Manescalchi nella sua bella Quarta di copertina :

 

«E tutto ciò diviene possibile per la capacità dell’autrice di cogliere l’ assoluto naturale  trascorrendo nei tempi minimi del pensiero poetante, oltre la similitudine e la metafora, ed usando, con magistrale destrezza, l’analogia, come si nota nella poesia BREZZA».

 

Proprio in questa poesia, dove l’accento è posto sulla spirituale carnalità del tema (l’”anello nuziale” come elemento di congiunzione tra i due momenti), la Casadei sfoggia la sua sapienza retorica con l’uso di una metafora che, in altro contesto, potrebbe sembrare piuttosto azzardata:

 

«BREZZA. La brezza / pupilla nella notte / sfilandosi il nuziale anello / sorridente, spira» (p. 39).

 

L’obiettivo della Casadei è, allora, quello di realizzare una circumnavigazione dell’elemento caduco della vira per raggiungere la forma rappresa e inalienabile dell’ assoluto naturale:

 

«L’ASSOLUTO NATURALE. Dai primordi dei tempi, / dal vento del deserto alitato, / lo scalzo seme si pose. / L’ardire del soldato / il suo pianto di bimbo / il marchio del braccato / l’amore roco / di chi troppo ha amato. / Dal podio della vita, / la Madre, sollevando il manto, / ascolta e acquieta le note / dell’orchestrato canto»

 

L’”assoluto naturale” (al di là del titolo della breve commedia di Goffredo Parise che lanciò nel 1968 questa definizione) è, per la poetessa fiorentina, il nocciolo duro e concreto della poesia, la scoperta della verità del reale cui essa deve aspirare, la sostanza di cui sono fatti non soltanto i sogni ma anche le emozioni, i sentimenti, le passioni degli uomini e delle donne che vivono nel mondo.

La Poesia si pone, allora, nella sua assolutezza e proprio a partire dalla sua dimensione originaria (il “deserto” disabitato, sconvolto e percorso dal vento della creazione), allo stesso livello del Sacro che la alimenta e che di essa si sostanzia. I moti del cuore e le oscillazioni del sentire si pongono tutti, dunque, al servizio di una volontà di Assoluto che li trasfigura e li sconvolge nel tentativo di dargli imperitura sostanza. L’approdo al Sacro, allora, avrà la funzione di trasfigurare il dolore dell’uomo e, nello stesso tempo, di consolare la necessaria sofferenza insita nella vita, dandole quel lenimento che la parola poetica sollecita e permette di attuare. Come rileva con intelligenza Gabriella Castrica nella sua Prefazione, insistendo sul tema della morte presente nelle poesie contenute nel libro e valutandolo per quello che vuole essere e contare nell’equilibrio della ricerca stilistica di Amelia Casadei, negandole giustamente un ruolo di puro risvolto esistenziale:

 

«Da notare come l’idea della morte filtri di continuo da tutte le parole che, però, nella dolcezza lirica di immagini definite e indefinite nello stesso tempo perché proiettate in uno sfondo di eternità, permangono nel loro primario significato e quindi non appesantiscono il testo, intatto nella sua “profonda lievità”» (p. 7).

 

La “leggerezza” della lirica si sposa alla sua capacità di andare oltre i puri e semplici “fatti della vita” che si incardinano nelle parole. E’ in omaggio ad esse che la poesia può essere considerata il frutto più maturo dell’esistenza vissuta e sentita come dono ricevuto e come destino meritato, in nome di qualcosa che rimarrà, anche quando l’esodo sarà terminato.

 

«PAROLE. Preludio di misterioso evento / tremante, violo segrete parole. / Le incatenate creature / si elevano in doloroso canto, / la mia mano si fa pietra / e gli occhi pianto» (p. 38).

 

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

 


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