I LIBRI DEGLI ALTRI n.36: La poesia come forma della verità. Stelvio Di Spigno, “La nudità”

Creato il 18 aprile 2013 da Retroguardia

La poesia come forma della verità. Stelvio Di Spigno, La nudità, Ancona, peQuod Edizioni, 2010

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di Giuseppe Panella

Nella sua lunga e accurata postfazione a La nudità di Stelvio Di Spigno, non a caso intitolata “Una strategia di dissolvimento”, Fernando Marchiori scrive utilmente, riquadrando in prima istanza il percorso intellettuale e poetico dell’autore napoletano :

«Al movimento del soggetto verso l’esterno, verso la diaspora nel mondo, corrisponde un uguale e contrario movimento del mondo “verso l’interno”, verso il “dentro di noi” : “In noi le isole dell’afa si trasformano in pietra” (Gaeta) ; “Fa freddo e piove molto / nella mia vita” (Canone fraterno). Ma è chiaro che “dentro di noi” è un posto che non ci appartiene più – se mai ci è appartenuto – dal momento che io adesso è fuori. E quello risucchiato “in noi” è solo il mondo della nostra rappresentazione, rispetto alla quale il soggetto diviene estraneo, straniero. Lo scambio di posizioni lascia il soggetto irrelato e disperso in un mondo inconosciuto, mentre risucchia il mondo creato a nostra immagine e somiglianza nel luogo di una presunta – presuntuosa – soggettività, autosufficiente nella sua insignificanza. Perciò può essere che non lo riconosciamo : “vedremmo che il mondo non tornerà lo stesso, / non ci assomiglia più, si è ritirato in noi” (Deflusso). Quel “dentro”, la parte più nostra del noi, non è più “noi”. Siamo rovesciati in fuori, sbattuti fuori. Vediamo dall’altra parte. Ci avviciniamo all’animale rilkiano. Diventiamo mondo. E non è dato saperlo» (p. 82).

A parte Rilke e altre possibili reminiscenze legate alla formazione culturale di Di Spigno, il fatto è che “la nudità” consiste proprio in questo, nell’essere in presenza di se stessi e di osservarsi, pur rimanendo all’interno della propria sfera interiore, della propria vita quotidiano, del proprio sogno.

Uscire da sé significa, in questi vorticosi frammenti poetici, entrare in una dimensione della soggettività in cui ci si esamina e si riflette sulle proprie scelte, i propri errori, le proprie vicende senza rinunciare a dire io.

L’identità lirica del poeta è, dunque, affidato a questo scatti identitario che, purtuttavia, lo disloca e lo riporta a una natura frammentaria, dividua, quale è ormai da sempre il Soggetto moderno.

La poesia di Di Spigno è spesso petrosa, irta, piena di spigoli e di rimpianti esistenziali :

«Pietra focaia. Vive il mondo con noi, il mondo a luci gialle, / le luci gialle del tunnel del Gran Sasso. // Ci siamo entrati in questo buco nero / è qui che torna lo sterno del passato / con quello stesso odore di quando moriremo / tra i ghiacci polari e le bocche del deserto. // Tutto quello che non siamo e non saremo / è dentro questo tunnel intestinale / e finirà con la crociera solare / della gente perduta per sempre / quando torneremo nella luce diritta. // E se ci disturba questo corpo a corpo / tra l’amore distrutto e il tempo ammutolito / dovrò mettere / una pietra sulla piastra e fare luce col gas : // le scriverò come fossero al passato / le scintille che si incastreranno / oltre il buio della stanza, stasera» (p. 26).

Poesia assai esemplificativa del procedimento stilistico di Di Spigno, Pietra focaia vive proprio di quella forza espressiva (quella petrosità) di cui si diceva sopra, proprio perché alla descrizione diretta delle montagne e dei tunnel che le traforano attraversandole da parte a parte, si aggiunge l’idea di un’esplorazione in profondità dell’io che parla e che si concentra sul “corpo a corpo” con la propria storia e la propria difficoltà a vivere.

Scendendo giù per le “natural burella” della sua vita, l’io accetta di “incendiare”, di dar fuoco alle proprie paure e alle proprie angosce per tradurle in poesia, per trasformare, bruciandole, le scorie del proprio passato in parole che sanciscano come e qualmente quelle stesse difficoltà che potrebbero disturbare il corso dell’esistenza e turbarne il tranquillo scorrere e fluire (così come temeva di fare Alfred J. Prufrock in un celebre poema di T. S. Eliot) siano diventate materia di scrittura lirica. La “pietra focaia”, allora, è, per Di Spigno, una metafora forte della poesia stessa, ciò che permettere l’incendio definitivo dell’io in nome di una sua rinascita successiva nel mondo delle parole che si  conoscono e che, quindi, si possono dire.

Ben lungi dall’essere il segno dell’incapacità a vivere (come progettava la poesia di Montale, qui esplicitamente citata), l’ispirazione lirica è il momento del rilancio e della  rivitalizzazione di ciò che è rimasto pietrificato in attesa di quello che poteva essere, non è stato e resta ancora da realizzare. Il “corpo a corpo” con il mondo è quello che conduce alla straziata condizione di “nudità” che permette, però, l’attraversamento finale della distanza tra la vita e la morte e la sua trasformazione in spazio esistenziale di conoscenza realizzata.

Vivendo fino in fondo il viaggio attraverso il tunnel del Gran Sasso, laddove si concentra la consapevolezza dell’”orizzonte degli eventi” e si solidifica il sapere astratto della scienza “esatta”, si raggiunge il luogo dell’azzeramento dei dubbi tormentosi e brucianti dell’io in crisi e del confronto con le sue potenzialità a venire, con le sue rapide congiunzioni con la vita.

La “nudità”, ben lungi dall’essere la condizione tragica dello spossessamento assoluto, è, invece, la dimensione della ricerca giunta a un punto di non ritorno, oltre il quale non si può che rimanere confitti nella roccia ad attendere la fine che, invece, è ben lontana, imprevedibile, ancora non redenta. Mettendosi “nudi” di fronte a se stesso riflettendosi in esso come in uno specchio, rappresenta, per la proposta poetica di Di Spigno, l’opportunità di ritrovarsi e di riscattare ciò in passato sembrava disperso, dimenticato, rimosso, perduto, obliterato…

«Fiducia. A volte alle spinte del vento guardo ritagliarsi / il registro di tutta la mia vita : noioso, senza senso, / senza amori né omicidi né lacrime fantasma / solo un filo di campagna, / gli occhiali d’ordinanza, / qualche libro che odorava di buona e mala sorte : // se il finale fosse scritto da altri / quel giorno dovrebbero spiegarmi / perché non sono cresciuto e poi buttarmi in mare / per vedere se riemergo con le mie forze inconsce. // Non è facile sentirsi all’altezza / di uomini simili a noi, non ne sono sicuro, / forse è per questo che solo di me / riesco a parlare : così da non dire che Dio nevica / e che la neve si veste di nero se ci passi sopra in auto. // Le foto da bambino ormai mi appartengono / ma gli amici e tutte le altre compagnie / sono troppo grandi per ora, le tengo fuori» (p. 60).

In tutta l’opera poetica di Di Spigno ci si imbatte ad ogni passo in una situazione intermedia di attesa : tutto ciò che accade appare inspiegabile e ingiustificato a un primo sguardo e poi appesantito dal peso del grigiore quotidiano. Eppure, ogni volta, c’è la speranza di un possibile riscatto e il passato viene assorbito e possibilmente accettato come qualcosa di cui ormai non si può più fare a meno. Il presente resta incerto e senza qualifica –  su di esso, per ora, non si può fare affidamento ma un giorno chissà, anch’esso risulterà degno di fiducia.

Nelle diverse sezioni che compongono questo suo volume di liriche, Di Spigno cerca di variare il suo metro a seconda della situazione poetica in cui si trova.

Le sue poesie sono (è il titolo di una delle parti che compongono l’intero del libro) a “geografia variabile” e non solo perché si rivolgono al tratteggio di luoghi letterari per eccellenza (“Milano Berlino Dublino”, come a p. 67 nella poesia Invarianza) ma perché tracciano un ritratto della soggettività del poeta che oscilla tra la dedizione assoluta al verso, alla sua “nudità” appunto e il ripiegamento nei drammi della difficoltà quotidiana del vivere. La “geografia variabile” della poesia di Di Spigno, allora, è fatta di cedimenti (Resa si intitola uno dei testi più intensi ed espliciti della raccolta) e di arroccamenti (Fondamenti), di limiti quasi invalicabili (Indirizzo) e di sconfinamenti (Verso Nord). Allo stesso modo, nella dantesca città di Dite, si oscilla tra il tormento del desiderio e la forza della carità (il riferimento è a due poesie comprese nella sezione del libro che si intitola, appunto, Lo specchio di Dite e racconta vicende di confessione morale).

In una delle poesie che compongono questa quarta parte del libro, Animazione, il poeta consegna ai suoi lettori una dichiarazione di poetica che potrebbe sintetizzare, con rigorosa equanimità, l’intero libro, riunendone, in un’unica esternazione, il progetto e il tormento della sua realizzazione:

« […] Non ho nessuna pelle e assomiglio a tutto, / eppure cerco qualcosa che sia io : una pietra o un’idea, / un essere indifeso per essere sicuro che così / lo si ama. Le parole, quelle sane, lasciamole al sudore / di chi un’identità l’ha già trovata, magari tra i bagagli / in un aereo che dia diritto a una vita sola» (p. 44).

Di questa ricerca d’identità, allora, sempre affannosa e appassionata, consiste in larga parte la quest lirica di Di Spigno ed è essa a trasformarla da dichiarazione di  resa nei confronti del presente in accettazione coerente e convinta proprio di quei limiti che lo rendono materia incandescente di poesia.

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato

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