I LIBRI DEGLI ALTRI n.4: Parlare in un’altra lingua, vivere in un altro corpo. Anna Vincitorio, “Il limo di Eva”

Creato il 22 maggio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da giuseppepanella su maggio 22, 2012

Parlare in un’altra lingua, vivere in un altro corpo. Anna Vincitorio, Il limo di Eva, Cagliari, La Riflessione – Davide Zedda Editore, 2010

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di Giuseppe Panella*


Giuseppe, il protagonista assoluto, del testo narrativo di Anna Vincitorio vive in un corpo che non sente essere il suo. Vorrebbe essere Lucia, avere la possibilità di sentirsi una donna, fare la sua vita, non essere costretta a un nome e a una condizione che non sente propria. Soprattutto vorrebbe parlare con la lingua di una donna. Gilles Deleuze e Felix Guattari hanno mostrato, in un loro celebre libro su Kafka, che il grande scrittore praghese ha composto i suoi capolavori linguistici in una lingua che non era quella parlata dalla maggioranza dei suoi compatrioti boemi ma apparteneva ad una “letteratura minore”, il tedesco utilizzato dalla comunità ebraica della capitale della Cecoslovacchia. Anche Lucia-Giuseppe parla in un’altra lingua – vorrebbe che fosse liscia e delicata come quella di una donna, è costretta ad avere le forme spezzate e sporgenti della loquela maschile. Vorrebbe avere un corpo di donna ma è limitata dall’anatomia di un maschio e dalle sue attribuzioni sessuali secondarie e deve fare ricorso all’elettrocoagulazione per poter evitare la barba e altre pelosità tipiche di un uomo maturo. Nonostante questo, il suo fisico è delicato e dolcissimo (così viene definito nel libro) e attira l’attenzione degli amanti del “terzo genere”.

Una versione molto contrastata (ma ancora vigente) del significato del termine Sublime (legato all’estetica ellenistica e poi successivamente mutuato nella cultura occidentale quale termine di riferimento rispetto al Bello) lo vorrebbe derivato da sub limen che potrebbe sì voler dire sopra la soglia (della porta) ma anche sopra il fango, il limo della realtà, il limo da cui è nata Eva e che è lo stesso da cui è stato foggiato e formato Adamo. Lucia che intende disperatamente lasciare il corpo di Giuseppe e diventare una donna vuole che il proprio “limo” sia ricondotto al corpo mitico di Eva e non più a quello originario di Adamo, che il “limo” da cui sorge l’umanità all’alba della Genesi diventa quello di una futura forma femminile e non sia più prigioniera in un corpo (e in un’anima) maschile. Dunque, Giuseppe parla la lingua di Lucia ma mantiene ancora (pur con limitazioni dovute alla pratica estetica e chirurgica) la dimensione maschile di Giuseppe.

Tutta la sua vita sarà visitata dal fantasma della fuga verso un’altra e più autentica dimensione che difficilmente avrebbe però potuto raggiungere. Fin dall’inizio in Sicilia a Palermo e poi in giro per l’Europa, a Parigi e poi a Firenze, il rapporto di Lucia con gli altri (il proprio corpo e quello dei suoi clienti prima e dei suoi amanti poi) sarebbe sempre stato reso difficile da questa sua aspirazione a vivere e a parlare una lingua “aliena” da quella che la società gli aveva assegnato per nascita.

«Ma, se di giorno posso essere disprezzata, la notte anche la morale perde il suo pudore e il desiderio degli altri è sopra di me anche se non alberga in me desiderio alcuno. A casa mia, in campagna, non venne accettato il voler essere “diversa”. Mio padre mi scacciò. Ma venne, pensa, una notte a cercarmi a pagamento senza sapere chi fossi. Voleva vivere un’esperienza nuova e sconvolgente. Io non potei farlo e mi feci riconoscere. Qui adesso rappresento un’intera categoria; ho l’appoggio dei radicali e do consigli a questi “ragazzini”. Non è posto per loro la Sicilia, devono partire su di un treno preso di notte, con poche cose e un indirizzo per l’elettrocoagulazione. E’ il primo passo necessario seguito poi dal trattamento ai siliconi. Da non molto tempo, precisamente dal 1982, esiste una legge che ci permette, mediante un’operazione, di ottenere l’identità desiderata e un nome nuovo sui documenti. Certo, quante speranze! Finalmente sentirsi donne anche al di fuori; non più quella campana fra le gambe, non più soprusi; magari un negozietto di chincaglie là in periferia. A qualcuna va bene, ma ad altre come me non è successo» (p. 17).

Tutte le vicende esistenziali, amorose o lavorative, sono state per Lucia in gran parte delle delusioni. Il romanzo di Anna Vincitorio le segue con molta empatia e la giusta dose di pietas perché non trabocchi in sentimentalismo eccessivo o in lagrimevole elegia sul “latte versato”. Tuttavia in Lucia c’è questa prepotente volontà di essere donna, di sentirsi legata amorevolmente (e spesso anche di essere sottomessa) alla forza della volontà e del desiderio di un uomo. I suoi rapporti con gli altri “diversi”, infatti, spesso sono teneri e delicati e commoventi (come a Parigi l’amicizia con Deborah, con il quale condivide fasti e nefasti presso la maison di Madame Arthur, rue des Martyres, Paris 18) ma è sempre alla forza virile che Lucia fa ritorno e sulla quale fa affidamento. E’ il caso di Antonio con il quale stabilisce un singolare ménage à trois condividendolo con la moglie e il loro bambino. Con l’uomo, che in certa misura la plagia (e la sfrutta) ma che sicuramente nutre nei suoi confronti una passione forte e viscerale, Lucia prova il godimento degli amanti e si rifugia nel conseguimento dei primi, veri orgasmi di una donna soddisfatta e appagata. Nonostante gli alti e i bassi di quella relazione basata sul denaro e su una sorta di sottile ma formidabile dominazione indiretta, Lucia sente di non poter fare a meno di lui:

«Lucia sente di essere preda di una vertigine rossa, vorace. Nella gola serpeggia una sete che non si placa. Il cuore galleggia tra cieli azzurri e polvere. Adesso il tempo assume una sua dimensione: il prima e il dopo Antonio. Un fitto intrico di liane, le sue sensazioni ora di ascesi, ora animalesche. Sente finalmente il suo corpo vibrare, cercare, acquietarsi pago ogni volta dopo “la piccola morte”. Ha davanti agli occhi sempre le mani avide di lui che la bloccano in una morsa dolce e spietata. Tra spirali di fumo, il suo ironico mezzo sorriso, il suo improvviso distacco, quell’alone di mistero del quale si compiace. – Non devi mai cercarmi e sapere nulla di me; vengo quando posso e ne ho voglia. Ti aiuterò a rimettere a posto la casa, sono un muratore e posso farti risparmiare sul materiale – Lucia ogni volta che lo vedeva gli dava dei soldi, sempre di più. Lui poi si allontanava sorridendo» (p. 51).

Il periodo fiorentino di Lucia è caratterizzato, dunque, da un rapporto forte ma molto sofferto: la condivisione dell’amante con sua moglie costa molto a Lucia. Ma, insieme alla scoperta della passione, arrivano anche delle amicizie molto intense e privilegiate: quella con Marianna e Claudio.

E’ qui che la dimensione prepotentemente onirica della scrittura di Anna Vincitorio predomina: i discorsi dell’uomo, ricercatore assoluto dell’Assoluto e della Verità Ultima, si innestano in un clima di sogno e di mistero descritto con accuratezza così come all’inizio lo erano state le pagine che descrivevano le processioni religiose e i corsi carnascialeschi delle maschere demoniache (le streghe e gli esseri venuti dal Regno delle Tenebre e, per questo motivo, deputati alla celebrazione del Sabba che vengono ricondotti, invece, all’ufficio di maschere comiche e, quindi, neutralizzati in funzione puramente decorativa). Alla sua figura sono dedicate pagine significative:

«Nella augusta stanzetta del centro storico, spesso al lume di candela, compiva viaggi in astrale. Il suo corpo e quello dell’alunno di turno, sostavano a lungo immobili sul letto angusto, mentre al di fuori, venivano proiettate le loro stesse sembianze. Il ritorno, sempre più difficile, richiedeva grosso impegno mentale. Alla mente di Claudio fluivano ricordi lontani, legati alla scuola tibetana dello jogi Vinkananda e alla figura della Sibilla Cumana. Era fortemente convinto che, solo attraverso l’ingerimento di alcool, i suoi pori potevano trasudare quella glucosio-energia necessaria ai suoi esperimenti. Ecco che le parole, distanziate, acquistavano corpo e un delirio incalzante lo scuoteva. Poteva accadere tutto, in quegli istanti: dall’inverosimile all’inaspettato e dall’annientamento al ritorno della coscienza» (p. 56).

La vicenda di Lucia si intreccia a quella di Claudio e Marianna fino alla morte (prevista) dell’uomo. Poi la storia di Giuseppe che vorrebbe pur sempre essere “solo” Lucia stinge nella malinconica attesa di una primavera che dovrebbe seguire ad un autunno pressoché perpetuo. Il telefono squilla a lungo ma lei non risponde affatto – ha cessato forse di sperare in un futuro diverso e migliore? Anna Vincitorio non lo dice mai ma dalle descrizioni accorate e simpatetiche dei colloqui con Lucia emerge forse un segno di speranza scandito da un abbattimento morale troppo frequente e poco proficuo. Il futuro non appartiene a nessuno degli umani e questo Lucia lo sa ma il suo destino, che lei stessa si è scelto, non prevedeva una felicità simile a quella di tante altre donne.

La solitudine che la assorda è fatta di sogni e di visioni del passato; da esso potrà forse liberarsi un giorno come pure dalla sua nebbia tormentosa e piena di dolore ma per ora lei resta sospesa, “sospinta incessantemente nel passato” (cito dal finale – bellissimo – del Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald).

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)


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