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di Giuseppe Panella
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Da molto tempo, con qualificata continuità e intelligenza linguistica, Ivo Morini prosegue, infaticabile, un proprio discorso lirico-narrativo, spesso di minoranza nel panorama poetico italiano ma, non per questo motivo, di poco spessore ai fini del suo rinnovamento storico-tematico. Come scrive Asor Rosa nella sua Presentazione, si tratta di “una sorta di saga favolistica, senza fine ricca di echi e reminiscenze lontane”.
Fondamentalmente, Morini ha scritto la sua autobiografia poetica, mettendo insieme episodi importanti della vita nazionale (la guerra civile contro i nazifascisti, il dopoguerra e la ricostruzione) con altri della sua esistenza privata in una sintesi che lo porta a continue variazioni di toni e di temi (e anche dei ritmi usati). Si inizia con gli affetti familiari (dal padre alla madre, dalla nipotina Gaia al piccolo Lorenzo) e ci si immerge, poi, quasi di scatto, negli anni “neri” della giovinezza, del fascismo subito come un’onta, della Resistenza e della gloriosa battaglia di Monticchiello (7 aprile 1944) laddove un pugno di giovanissimi partigiani sconfisse un preponderante gruppo di soldati di Salò. Dopo la guerra, però, negli anni Cinquanta, saranno gli anni tutt’affatto entusiasmanti del dopoguerra a scandire la necessità di trovare lavoro, di guadagnarsi la vita ma anche di partecipare alle trasformazioni politiche e sociali che tutti si attendevano e che non ci furono affatto, se non in minima parte. La delusione avverrà, negli anni Settanta, quando incomberà la “stagione sporca” e sarà la fine di parte delle illusioni degli anni precedenti. Ma non c’è solo tanto di Morini in questo libro di ricapitolazione della sua esistenza: il protagonista vero è il suo agire di poeta che comprende il dramma e il momento ludico, la battuta sferzante del toscano doc e la punta struggente della nostalgia. Ne sono testimonianza le liriche migliori, quelle intitolate De senectute e in cui allo sberleffo si mescola sempre il rimpianto per gli anni già trascorsi:
“IL TEMPO A RITROSO. Credevo sognavo di avere vent’anni. / Mi sono guardato allo specchio / la fronte segnata di rughe / macchiati di grigio i capelli / di amaro piegata la bocca / nel volto un’ombra di morte / non mi riconosco più. / Terribile estraneo lo specchio. / Negli occhi ho trovato vent’anni / ma assenti sperduti / in caldi lontani mattini. // I ricordi danzano / nella luce e nell’ombra” (p. 66).
L’evocazione del passato non salva il presente e neppure la poesia può attenuare la dura necessità di accettarne il passaggio irrevocabile. Ma, solo attraverso il suo uso catartico, ciò che può sembrare irreversibile si rovescia in ricordo e apprezzamento di tutto quello che forse non è stato fatto invano.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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