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I LIBRI DEGLI ALTRI n.59: Tempo di vivere, tempo di capire. Filippo D’Angelo, “La fine dell’altro mondo”

Creato il 20 novembre 2013 da Retroguardia

Filippo D’Angelo, La fine dell’altro mondoTempo di vivere, tempo di capire. Filippo D’Angelo, La fine dell’altro mondo, Roma, Minimum Fax, 2012

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di Giuseppe Panella

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Filippo D’Angelo, al suo primo romanzo, si è cimentato in un’operazione complessa e certamente alquanto arrischiata, per non dire pericolosa: scrivere (almeno) tre libri in uno.

Il primo appartiene al genere più classico, quello del “romanzo di formazione”, il Bildungsroman celebrato da Goethe a Conrad come il genere (auto) biografico per eccellenza. E’ la storia di Ludovico Roncalli, genovese ventottenne, che cerca di trovare una propria compiuta dimensione esistenziale attraverso il sesso, anche pagato, l’alcool e un impegno politico talvolta sentito profondamente, talvolta solo alluso come prospettiva vagamente salvifica. Il secondo è legato al mondo della ricerca accademica e del mondo universitario in cui la satira del malcostume e dell’intrallazzo universitario si lega, però, alle sincere ambizioni di individuare qualcosa di nuovo nel campo spesso già fin troppo arato dell’erudizione e della filologia umanisticamente letta come viaggio a ritroso nella storia. E’ il caso di che vuole trovare a tutti i costi, frugando e saccheggiando (e spesso rubando – come è capitato, va detto, anche nel caso di illustri ricercatori novecenteschi) nelle biblioteche di tutta Europa, dalla Francia alla nuova Russia, il “vero” finale della grande utopia scritta da Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac (L’altro mondo ovvero Gli stati e gli imperi della Luna e del Sole), probabilmente considerato troppo sconvolgente per l’epoca e, di conseguenza, censurato ed espunto dalle edizioni che circolavano più frequentemente tra i lettori interessati alla polemica politico-filosofica.

E’ forse la parte più interessante e sicuramente quella più affascinante del romanzo di D’Angelo.

Il terzo libro è costituito dall’approdo civile dell’opera e la polemica – durissima e veemente – contro gli abusi della polizia e i selvaggi maltrattamenti operati da essa nei confronti dei giovani manifestanti arrestati durante le giornate di protesta contro il G8 di Genova del luglio del 2001 culminati poi con la morte violenta, ancora oggi mai compiutamente chiarita, del “ragazzo” Carlo Giuliani. Tre storie in una – forse troppe per un romanzo solo, certo tutte e tre inquietanti e sviluppate con l’esaustiva ricchezza di una scrittura robusta e ben articolata strutturalmente.

Dunque, il protagonista di La fine dell’altro mondo, aspirante dottore di ricerca in Letteratura francese con una tesi sull’utopia nel Seicento (ha fatto – come si vede – gli stessi studi dell’autore del romanzo), erotomane con l’aspirazione alla tenerezza di una relazione appagante e totale (ma poi sempre sull’orlo dell’incesto con la sorella Umberta), critico inquieto ma mai troppo radicale della società che l’ha alla fin fine partorito, è sempre alla ricerca di un centro, di una dimensione compiuta in cui realizzarsi come uomo, come studioso affermato, come cittadino.

Anche per lui vale il detto, caro a Eduardo De Filippo, che “gli esami non finiscono mai” e che, come viene narrato all’inizio della storia, si falliscono sempre (niente Bocconi né Normale di Pisa per, difficoltà accademiche e di relazione sentimentale, sogni infranti o riflessi troppo spesso nel cristallo di un bicchiere pieno d’alcool).

L’ambizione studiosa di Ludovico Roncalli è quella di scoprire e di pubblicare (possibilmente) il testo “definitivo” dell’ Altro mondo di Cyrano: la seconda parte del quale (Gli stati del sole) è stata pubblicata postuma nel 1662, dopo la prematura morte del prestigioso quanto incompreso spadaccino-filosofo.

La sua ricerca lo porterà in giro per la Francia e poi in Russia, presso la Biblioteca Rudomino di letteratura straniera, dove sembrerà aver ghermito l’oggetto delle sue brame filologiche.

Ma del tutto invano: vittima delle sue possenti quanto incontrollabili pulsioni erotiche che lo spingeranno ad accoppiarsi con due gemelle identiche in un albergo moscovita, si vedrà rubare il testo da lui stesso a sua volta trafugato con insolita destrezza dalla biblioteca che lo ospitava proprio dai protettori delle sue procaci ragazze e costretto a iniziare una non facile trattativa per provare a recuperarlo. Ormai ridotto allo stremo economico dalle folli spese del soggiorno in Russia, la prospettiva del pagamento esoso richiestogli dai detentori del volume sottrattogli dopo l’impegnativo doppio amplesso con le gemelle frustra in maniera definitiva le sue ambizioni di ricercatore di clamorose novità storico-filologiche (ovviamente nel ristretto campo degli studiosi del Seicento francese).

Ma anche il suo destino di amante eternamente frustrato dal punto di vista dell’affettività resterà incerto e poco promettente. Così pure l’improvvisa passione civile che lo ha acceso e lo ha portato a immedesimarsi nella sorte dei manifestanti contro il G8 e la sua fatidica “zona rossa” resterà sospesa al filo dell’indeterminatezza e del velleitarismo senza sbocchi.

Il fatto è che “tutto” Ludovico è una metafora, tutto sommato riuscita e ben dimostrata sul campo della scrittura, dell’immaturità di una generazione, nata nell’età del benessere e dell’ansia, cresciuta senza problemi economici e con apparente ampiezza di prospettive future e poi sprofondata, quasi senza soluzione di continuità nell’abisso di una devastante crisi economica, politica, morale, valoriale. Il protagonista – ed è lampante proprio questo, fin da subito – non sa che fare: continuare e studiare nel solco dei suoi improbabili maestri universitari, sopravvivere confitto nel cerchio dei valori borghesi (quelli stessi in cui si trascinano in maniera assurda e recalcitrante i suoi stessi genitori, apparentemente professionisti di successo ma umanamente falliti e sua sorella che si sposta di letto in letto e di uomo in uomo senza mai trovare quello giusto che lo distolga dalla sua insana passione per il fratello – ma non è certo un’eroina alla Fedra, semmai una parodia postmoderna di essa)? Ludovico non lo sa e solo il sesso promiscuo e l’alcool gli sembrano una risposta promettente. La sua inquietudine non lo porta da nessuna parte ma di lui non si può certo dire che la sua appartenga alla generazione di una “gioventù bruciata” alla James Dean. Se non trova una causa giusta per cui combattere è perché non gli interessa trovarla.

Dunque: delle tre parti che compongono la struttura assai complessa (e certamente ben costruita) del romanzo la più interessante – come si è detta – è quella che riguarda Cyrano de Bergerac e il suo romanzo utopico. Finalmente libero dal cliché dello spadaccino indomabile e sfortunato nell’amore per l’ingenua cugina Rossana (l’imbastitura romantica cucitagli addosso nel celebre dramma in versi di Edmond Rostand e diventata poi per i suoi cultori e ammiratori una sorta di inossidabile gabbia d’acciaio), il pensatore libertino e iconoclasta vive una sorta di seconda vita nella ricerca che del suo libro più importante fa il ricercatore genovese.  Si tratta di una ricerca che ha certo il carattere dell’ossessione ma che è anche il simbolo (e il sintomo) di una volontà di purezza, di un desiderio di attingere a uno scopo che non sia l’immediato quanto effimero soddisfacimento della pulsione erotica di morte che affligge il protagonista.

Le pagine ambientate in via Balbi, alla Facoltà di Lingue dove ha studiato e dove si produce in improbabili conferenze e interventi seminariali ricordano quelle (oggi forse troppo presto dimenticate) di Franco Cordero (Opus, Einaudi, 1972 ; Viene il Re, Bompiani, 1974) per il carattere vetrioleggiante del loro sarcasmo e per la puntuale del disegno di costume. Ma incidono tuttavia meno nel disegno del testo anche perché non hanno più il carattere provocatorio che avrebbero potuto avere in anni più lontani, prima dello sprofondamento del sapere accademico nell’auto-perpetuazione dei suoi rituali e della sua impotenza ormai asfittica e prolungata.

Le storie d’amore di Ludovico, invece, sono certamente più intriganti ma rischiano in alcune situazioni di ripiegare sulla descrizione di una sindrome da Peter Pan fin troppo frequente in situazioni analoghe (e viste spesso al cinema o lette nei romanzi generazionali di fine secolo scorso). E’ il rapporto – ambiguo e prepotente – con la sorella Umberta, invece, ad essere una notevole forzatura nel senso della provocazione letteraria (anch’essa propiziata da un grande testo letterario, Un amore del nostro tempo di Tommaso Landolfi più volte citato nel libro e che, a sua volta, rimanda al possibile finale rimasto incompiuto dell’ Uomo senza qualità di Musil).

In conclusione, allora, La fine dell’altro mondo è il tentativo (talvolta ben riuscito, talvolta rimasto a livello di intenzione) di rappresentare un mondo e un universo di discorso che si auto-distrugge nel tentativo di rinnovarsi ma che sente sempre più intenso il bisogno di un salto nell’utopia concreta per evitare la propria morte per consunzione. Se questo non avverrà non basteranno l’alcool o i sogni a tenerlo ancora in piedi: sprofonderà nell’illusione di poter bastare a se stesso.

Nell’ultima pagina del romanzo, dopo aver appreso dalle poche pagine di un diario di molti anni prima che probabilmente sua sorella è il frutto di un amore segreto della madre delusa e quindi il loro non sarebbe un rapporto incestuoso, Ludovico Roncalli si interroga sul significato di tutto ciò su cui si è arrovellato a lungo in precedenza:

 

«Ludovico riprese in mano il diario della madre e ne lesse ancora, lentamente, le poche pagine. Poi si girò, vide l’altra scaffalata di libri e si chiese perché mai l’invenzione della scrittura fosse stata sviata dal suo compito originario – censire bruti dati economici, registrare flussi empirici – al fine di esprimere privazioni personali e tormenti, col solo risultato di dare voce a immagini senza suono. Umberta gli strinse un’ultima volta il braccio e gli propose di tornare in sala per accertarsi che anche la seconda torre fosse crollata. Dopo aver esitato a mentire, Ludovico strappò le pagine dal diario, le fece silenziosamente bruciare dentro un portacenere di pietra e seguì la sorella fuori dallo studio, senza aggiungere una parola» (p. 328).

 

Il crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre dello stesso anno della crisi di Genova è la conferma che qualcosa è finito definitivamente: un mondo non c’è più ed è andato in pezzo, un altro mondo sarà forse possibile ma non per gli eroi eponimi di quello vecchio.

 

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

 

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