I LIBRI DEGLI ALTRI n.63: Poesia per continuare a sperare. Enrico Maria Di Palma, “Dalla parte di Huáscar”

Creato il 08 gennaio 2014 da Retroguardia

Poesia per continuare a sperare. Enrico Maria Di Palma, Dalla parte di Huáscar, Piateda (Sondrio), CFR Edizioni, 2012

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di Giuseppe Panella

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Huáscar era il fratello di Atahualpa e legittimo erede al titolo di Sapa Inca, il sovrano assoluta del popolo degli Incas. Rifiutandosi di spartire il territorio del regno con lui, andò incontro a una disastrosa sconfitta nel corso di quella che gli storici battezzarono successivamente come “la guerra dei due fratelli” (anche se, in realtà, Atahualpa era figlio di una madre non di sangue reale diversa da quella di Huáscar, pur discendendo anch’egli direttamente dal re Huayna Cápac, morto di vaiolo mentre andava alla ricerca degli spagnoli guidati da Francisco Pizarro che ne erano stati i portatori e che poi avrebbero conquistato sanguinosamente e ferocemente il territorio abitato dal popolo inca, massacrandolo nella sua quasi totalità).

Atahualpa vinse ripetutamente e in maniera schiacciante le sue battaglie contro l’esercito, che pure era superiore numericamente, del fratellastro Huáscar. Questo non gli servì, comunque, a molto successivamente dato che il suo regno fu brutalmente interrotto dall’arrivo degli Spagnoli e, nonostante il nuovo Sapa Inca avesse riempito d’oro la sala del trono fino al punto indicatogli da Pizarro, la sua condanna a morte fu egualmente eseguita.

Ma Huáscar era anche il nome del villaggio in cui lo sfortunato rivale di Atahualpa era nato e questo sembra essere il toponimo cui fa riferimento Di Palma nel testo poetico che dà il titolo alla sua prima raccolta edita (opera terza classificata, peraltro, al Premio “Franco Fortini” per il 2011):

«Dalla parte di Huáscar. Poco ricordo / se non i tre corvi sulla strada / tra Poirino e Pralormo / e intorno l’aria delle settetrequarti / il cielo rotto in parti diseguali / gli occhi stanchi / è un gioco di funzioni / di fruizioni alcoliche, / “sei già stato / ad Arles ? “, / mi chiedeva l’alga nera / sulla ripida salita d’arancio, / sulla riva / dalla parte di Huáscar; con un passo in setteottavi / stavo imparando / il nome degli alberi / quercia leccio ontano lauro fico / mi stupivo del balcone / senza ringhiera / e del mucchio di mattoni / a carponi uscivo dalla notte / ci facevo a botte / mi fotte l’umido / che entra nella camicia / il cielo che canta contento / l’ombra di un ossesso lontano / la tanta ammirazione / in persone sconosciute / le bevute a imbuto / l’utero / le implicazioni delle azioni / le conseguenze le coincidenze, / “li hai visti / gli Alyscamps ?”; la via sapeva di Kebap / e intralciava con inciampi bianchi / il cammino per la veglia»[1].

Di Palma sembra credere in una poesia tutta fatta di attrazioni, mescidata, mescolata di allusioni e di ricordi – una poesia non rarefatta e non soltanto lirica ma ibridata, tra richiami di forte musicalità prodotti da rime non usuali o certo non tradizionalmente atteggiate (notte / botte / fotte) e strazio del tempo che passa e che solo la vaghezza della memoria può recuperare.

Nel tuffo nella natura (i nomi degli alberi), nel richiamo colto (la mescolanza tra luoghi molto noti come Arles e altri che lo sono assai meno come i due comuni della provincia torinese), nella consapevolezza dell’impossibilità odierna di ricomporre la propria vita in un tutto unitario e compiuto risiedono le ragioni di una ricerca che non è solo linguistica ma vuole essere assunto esistenziale. In Di Palma si rinnova il rimpianto del trascorso mandato, sociale e umano e politico, del poeta (già caro al Fortini più moralmente impegnato) e la domanda sulle sue possibilità di r-esistenza oggi. Nella sua poesia si ripete la domanda che la poesia continuamente si rivolge ogni volta che si pro-duce: cui prodest ? a che cosa serve continuare a scrivere versi?

A chi giova ancora mettere sulla carta pensieri e angosce, dolore e curiosità sotto forma di parole?

«Tempus interiectum. Credo // L’ira di un dio che non esiste / (acciambellato strepita nel nulla) / si abbatterà, forse, / sul capo di un giovane materialista // striscerà lungo la spina dorsale / e striglierà i gangli e le sinapsi / per trovare almeno un posticino. // Ho inventato un dio / che parla col sorriso / e con acqua-salata-dagli-occhi / che somatico mi abbraccia / e mi stimola la pelle // ho inventato un dio che non sa di essere un dio / e per questo in lui credo / come credo nella terra / e nei riflessi rintronati / delle mie percezioni. // Ho inventato il dio dell’imperfetto / della paura / della masturbazione mentale / dei capelli mossi / delle mani bellissime / delle note esalate // e per questo in lui credo, / perché non immagina nemmeno / questa mia venerazione, / che stringe le interiora / e mobilita le fibre. // E per questo in lui credo / perché è salvezza qui, / nella mia finitudine, / oltre l’uomo / ma non oltre la terra»[2].

Questo dio “che non esiste” o che “non sa di non essere un dio”, “imperfetto”. Il dio delle “note esalate”, in realtà, non può essere che quello della poeticità – non tanto o soltanto della poesia come evidenza compiuta o come pratica vissuta ma dell’atmosfera poetica nella quale il corpo e il sangue del poeta sono immersi e che gli permettono di rispondere alla domanda eterna dell’”eternità” della Poesia, della sua natura ontologica, della sua Verità come rapporto tra parola, scrittura ed esistenza.

In sostanza, questo “dio che non esiste” o che “parla con il sorriso” o con il pianto dell’emozione e dell’angoscia riconciliata dagli e per gli uomini è la capacità di produzione poetica, la possibilità di esprimere sensazioni, ricordi, illusioni e allusioni mediante le parole non sempre usuali e banali che la poesia lirica permette a chi è visitato da essa. Come ha scritto Gianmario Lucini nella sua breve ma succosa Introduzione alla raccolta del giovane poeta nato a Roma:

«Di Palma cerca insomma di costruire un poema sull’uomo moderno, sul senso di vuoto, di inanità, di precarietà e di insignificanza, nel quale si dibatte la nostra esistenza inurbata e stordita dagli anestetici della cultura di massa. La reazione è un ritorno al corpo, alla fisicità, alla decostruzione di tutti gli intellettualismi che dissacrano gli ultimi barbagli di libertà mentale e ci consegnano a un sub-umanesimo sempre più becero e vuoto. C’è l’eco della politica, della cronaca, dell’oggidiano. In conclusione, mi sento di affermare, con sicurezza, che siamo di fronte a una poesia già forte, altro che “giovanile” e tutto meno che “esordiente”. Sarà pure “opera prima”, ma di tutto rispetto, a prescindere dall’età del poeta»[3].

Ma, soprattutto, la risposta fondamentalmente e auspicabilmente ricavabile dai versi di Di Palma è un senso altrettanto forte di possibile speranza nei destini della poesia come strumento di conoscenza e di intervento sulla realtà, una forma di accettazione della sua necessità vitale.

La scrittura lirica gli serve per accettarsi e, nello stesso tempo, mettersi in gioco, prendere posizione a fianco di chi è destinato a essere sconfitto ma non per questo intende demordere e arrendersi (ciò lo destina a prendere posizione “dalla parte di Huáscar”):

«Laccio ego-statico. Se ti fermi, a tratti, nel ricordare / i gesti troppo vuoti dei poeti, / nel fenderti il petto al suono riarso / di fiati e figure e anafore e foni, / se cerchi più polpa, palpitazione, / appagante precisione del cuore / primigenia pressione, nuovo amore, / passione per puttane o meretrici, / sadica disillusione t’attende / e qui stenderà Noia la sua tenda / Frustrazione sua tovaglia torta, / qui si cercano le non-rime chioccie / che si strappano le ciocche, / si torcono / i colli, aspri si spremono i midolli»[4].

Così si trova a protestare il poeta contro se stesso e le convenzioni della sua scrittura, così si appiglia a se stesso per continuare a sperare, così si ritrova nella vita per difenderne l’improbabile significato. Scrivere poesia per Di Palma implica andare oltre la poesia in nome di qualcos’altro che non è dato conoscere ma che bisogna sempre continuare a cercare.


NOTE

[1] E. M. DI PALMA, Dalla parte di Huáscar, Piateda (Sondrio), CFR Edizioni, 2012, pp. 32-33.

Sia Poirino (situato ai confini delle province di Cuneo e di Asti) che Pralormo sono comuni situati in provincia di Torino. Gli Alyscamps (nella lingua provenzale: i Campi Elisi) sono un’antica necropoli romana situata vicino ad Arles. La località ha dato anche il titolo a un importante quadro di Vincent Van Gogh del 1888 ora conservato presso il Rijksmuseum Kröller-Müller di Otterlo. Tutta la toponomastica di questo testo poetico, tuttavia, pur essendo reale dal punto di vista geografico, appartiene ad una mappa personale e lirica disegnata in versi dall’autore.

[2] E. M. DI PALMA, Dalla parte di Huáscar  cit. , pp. 23-24. Il testo reca in epigrafe l’espressione latina Mihimet, a me stesso, che probabilmente deriva da un verso dell’Amphitruo di Tito Maccio Plauto: Neque, ita me di ament, credebam primo mihimet Sosiae (è un’espressione di vivo sconforto di Sosia, il servitore di Anfitrione, nel vedersi di fronte Mercurio, a lui stesso perfettamente rassomigliante nel corpo, che ha ricevuto l’incarico da Giove di impedire che i suoi amori con Alcmena, futura madre di Ercole, siano disturbati dal ritorno di coloro ai quali hanno “rubato” le sembianze umane).

[3] G. LUCINI, Introduzione a E. M. DI PALMA, Dalla parte di Huáscar  cit., pp. 6-7. Di Palma è nato nel 1987.

[4] E. M. DI PALMA, Dalla parte di Huáscar  cit. , p. 35.

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

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