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I LIBRI DEGLI ALTRI n.65: Favole mondane. Gabriele D’Annunzio, “Il mistico sogno”

Creato il 23 gennaio 2014 da Retroguardia

Gabriele D’Annunzio, Il mistico sognoFavole mondane. Gabriele D’Annunzio, Il mistico sogno, presentazione di Lucio d’Arcangelo, Chieti, Solfanelli, 2013

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di Giuseppe Panella

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Anche nella scrittura di D’Annunzio è stato presente, sia pure con minore frequenza rispetto all’espressività prevalente nel turgore stilistico della sua prosa narrativa, un aspetto creativo che si può definire fantastico nel senso originale del termine. L’irruzione del soprannaturale e del numinoso nelle Novelle della Pescara del 1902 segna in D’Annunzio il distacco dalla concezione del naturalismo come era fino ad allora vigente secondo i dettami della scuola francese importata in Italia da Verga e i suoi immediati seguaci come Capuana e De Roberto.

A questa nuova stagione inaugurata dallo scrittore pescarese appartengono i racconti e le prose liriche raccolti in questa antologia da Lucio d’Arcangelo. Così scrive, infatti, il prefatore a questo riguardo:

«Sia in Terra vergine sia nelle Novelle della Pescara fa la sua apparizione quel soprannaturale, generalmente cristiano, che il verismo aveva sostanzialmente rimosso. L’atteggiamento di D’Annunzio in questo senso è analogo a tanti scrittori dell’Ottocento, che tendevano a razionalizzare, in qualche modo, ciò che appariva come insolito e straordinario. Il soprannaturale, però, non viene spiegato, ma “smascherato”»[1].

In realtà anche nella scuola naturalista francese, come nei grandi romanzi di Zola o nei racconti del fantastico di Guy de Maupassant, lo straordinario e l’insolito trovavano largamente spazio in vista di una loro spiegazione scientifica che non sempre veniva compiutamente ottenuta con gli strumenti di indagine a disposizione degli osservatori[2].

Anche in D’Annunzio, indubbiamente, esiste il livello che d’Arcangelo chiama di “smascheramento” del falso soprannaturale o dell’evento miracoloso atteso a livello popolare.

Il racconto Santi e madonne in terra appartiene a questa categoria. Il miracolo che tutti dicono di aver veduto, l’apparizione della Madonna, è qualcosa che tutti vogliono vedere ma che in realtà è soltanto il frutto del loro desiderio:

«Lungo la via le compagnie dei pellegrini, lottando contro il vento e contro la polvere, cantavano a squarciagola. Vedevamo nella corsa, tra i nuvoli, qualche testa scarmigliata di vecchia, simile a un’orrida Medusa canuta, o qualche testa calva di fanatico tutta bianca di polvere, con gli occhi accesi come due carbonchi, col naso adunco come il becco di un avoltore: teste indimenticabili. Alcune donne ci gettavano imprecazioni, con le mani levate. In vicinanza del luogo sacro, scendemmo. Eravamo, in verità, un poco turbati da quel triste spettacolo di cecità umana. I reduci dal miracolo ci venivano incontro e ci guardavano con una specie di istupidimento. Tutti avevano veduta la madonna nuova, o su l’olmo o nella siepe. Il luogo dell’apparizione era sul limite di un campo, presso la via. Uno steccato di rami ancor fronzuti chiudeva in torno il terreno, e sul terreno giacevano molte imagini colorite, molte palme dorate, molti mazzi di penne. Contro lo steccato stavano in ginocchio i pellegrini, alcuni in un’estasi idiota, altri intenti per vedere. Nel mezzo, un uomo di piccola statura, con un acuto viso di faina, con la camicia aperta sul petto villoso, narrava la storia del miracolo e metteva altri giuramenti. Quell’uomo era l’eletto. Mentre cavava le pietre, in sul meriggio, sentì sotto la zappa una durezza strana. Per quanto ci faticasse, non riuscì a romperla e non cavò più pietre. Ma obbligo suo era di cavarne cento. Si raccomandò alla Madonna e, sfinito, prese riposo all’ombra di un olmo. La Madonna gli apparve in sogno e gli disse: “Ritenta la prova”»[3].

Il nuovo tentativo, con molta fatica, alla fine ebbe un risultato positivo e l’uomo, dopo aver rivisto la Madonna in sogno, ebbe l’ordine di rinchiudere l’olmo in cui era avvenuta la prima apparizione all’interno di uno steccato. Da qui l’origine del luogo miracoloso e dei numerosi pellegrinaggi verso di esso, ma la visione miracolosa non era altro che una spiga di granturco addobbata in modo da sembrare una “madonnetta”. Il miracolo non era altro che il frutto della credulità popolare (il “gran turco” diventato “gran cristiano” – come poi avrebbe commentato un gendarme buontempone)

In altri racconti più poeticamente atteggiati, invece, il meraviglioso predomina sia perché percepito con l’animo e il sentimento (e con una concessione forse piuttosto rilevante alla dimensione dell’autobiografia) del fanciullo come avviene in Ad altare Dei sia perché volutamente ricercato come momento del meraviglioso esibito come momento puro dell’incantamento poetico.

E’ il caso delle Favole abruzzesi dove viene raccontata la leggenda del patrono di Francavilla, san Franco o quello di I crisantemi in cui la narrazione, orientata nella direzione del fantastico, è il frutto di una testimonianza in prima persona di una crisi quasi mortale provocata dalla malia dei fiori e dal loro potere malefico:

«I crisantemi erano in copia grande; gialli, ma così lievemente che apparivano bianchi, e con l’estremità dei petali appena appena soffusa di viola; e rammentavano il pallore della carne d’una bimba assiderata. E tutti quei fiori mi guardavano; e mi mettevano nel cuore una immensa pietà e una immensa tristezza. Io mi chinai non di meno a cogliere i crisantemi. Come li steli erano tenaci, io li recideva con l’unghia. Dopo qualche minuto, avevo la punta delle dita agghiacciata. E d’un tratto mi prese uno sbigottimento; poiché io sentiva a poco a poco le forze diminuire e il freddo giungermi ai precordii»[4].

Infine, sia in Il mistico sogno che in Sancta Kabbala predominano gli elementi esoterici e alchemici della formazione dannunziana, elementi, però, vissuti più che come scelta personale e di pensiero come gratificazione mondana o addirittura sotto forma di seduzione scherzosa.

In Sancta Kabbala, infatti, il tono è vagamente surreale e senza segni di convinzione profonda, una sorta di scherzo brioso e teneramente soffuso di malizia:

«Qual è il segreto dell’evocazione? Io so che bisogna appropriarsi l’essenza di ciascuno dei quattro elementi, il fuoco del sole in forma di polvere imponderabile, la sostanza dell’acqua, quella della terra, e una goccia d’aria pura. Quando io avrò il talismano potrò vedere li Spiriti, parlar con loro, e comandarli, come Oberon comanda Puck nel dramma di Guglielmo Shakespeare. E Titania mi dirà, come diceva al tessitore Bottom: “Io sono uno spirito di un ordine superiore; l’estate obbedisce al mio impero e io t’amo. Vieni dunque con me. Io ti darò fate per servitù, che andranno a cercarti gioielli preziosi in fondo al mare. Conteranno cose mentre tu dormirai sopra un letto di fiori. E io saprò purificare i rudi elementi del tuo corpo mortale così che tu potrai errare come uno spirito aereo. – Fior di piselli! Tela di ragno! Tarlo! Seme di mostarda !”. “Eccomi”. “Anch’io” “Anch’io” “Anch’io”. “Dove dobbiamo andare ?” “Siate benigne e dolci con questo mortale…”»[5].

In particolare, poi, va detto che in Il mistico sogno, la dimensione paradisiaca, cara al D’Annunzio poeta, si rovescia in un’aura generalizzata ed esperienziale tale da evocare un mondo ultraterreno in cui il sacro e il profano, la tradizione mistica cristiana e quella dell’esoterismo neopagano cercano nella narrazione una forse impossibile fusione.

«Il poeta narrò alla Diambra: Ho fatto un bel sogno. Mi pareva d’essere nel Paradiso. Io vedevale undicimila vergini incedere, a due a due, lungo quella via di stelle che i mortali chiamano Via Lattea. Ed era come la processione d’un collegio interminabile di angeli. Di tratto in tratto le vergini si fermavano per coglier fiori di luce. Li sfogliavano, raggio per raggio, come fanno delle margherite i fanciulli di quaggiù, o ne formavano mazzolini. E i loro sommessi parlari, misti di brevi risa, somigliavano il cinguettio di una miriade di uccelli.  Ma com’ebbi seguito lo sciame per molti anni – poiché il Paradiso non è una regione che si possa cogliere in qualche ora – mi ritrovai in un così magnifico luogo, che l’anima mi si smarrì e li occhi mi si abbarbagliarono. Le più fresche aurore de’ nostri cieli inferiori, i nostri pieni meriggi, l’incendio de’ tramonti sul mare, non potrebbero dare un’imagine di quella dolce ed insieme terribile chiarità attraversata da silenti voli di serafini, più luminosi del giorno»[6].

In “quella dolce ed insieme terribile chiarità” predomina il livello “sublime” dello stile dannunziano e la sua preponderanza come cifra espressiva.

In Il primo fuoco, infine, il tema dell’epifania del fuoco che era fondamentale nel romanzo che reca lo stesso titolo (e che viene pubblicato con grande successo di scandalo nel 1900) emerge con tocchi poetici meno appassionati ma comunque fortemente evocativi, come elementi di una visione fantastica del mondo.

Questa dimensione, forse in precedenza non troppo adeguatamente messa in rilievo dalla critica dannunziana, è presente, invece, in maniera rilevante nell’opera dello scrittore abruzzese e in queste “favole mondane” emerge con tutta la ricchezza della sua potenzialità letteraria.


NOTE

[1] G. D’ANNUNZIO, Il mistico sogno, a cura di L. D’Arcangelo, Chieti, Solfanelli, 20132, pp. 6-7.

[2] Ho ricostruito questo modello di analisi letteraria fondato su motivazioni di carattere scientifico-sperimentale nel mio Émile Zola, scrittore sperimentale. Per la ricostruzione di una poetica della modernità, Chieti, Solfanelli, 2008 in cui ho cercato di verificare il debito dello scrittore francese nei confronti di studiosi come Claude Bernard. Zola e Maupassant sono certamente autori che influenzarono il giovane D’Annunzio non soltanto sotto questo profilo.

[3] G. D’ANNUNZIO, Il mistico sogno cit. , pp. 74-75.

[4] G. D’ANNUNZIO, Il mistico sogno cit. , p.  44.

[5] G. D’ANNUNZIO, Il mistico sogno cit. , pp. 36-37.

[6] G. D’ANNUNZIO, Il mistico sogno cit. , pp. 29-30.

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

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