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I LIBRI DEGLI ALTRI n.8: Altri tempi, forse migliori, forse no… Lucia Bruni, “Pontormo e l’acqua udorosa”

Creato il 10 luglio 2012 da Retroguardia

I LIBRI DEGLI ALTRI n.8: Altri tempi, forse migliori, forse no… Lucia Bruni, “Pontormo e l’acqua udorosa”Altri tempi, forse migliori, forse no… Lucia Bruni, Pontormo e l’acqua udorosa, Palermo, Flaccovio, 2010

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di Giuseppe Panella*


Che cosa c’entrano Jacopo Carucci da Pontorme detto Il Pontormo con il profumo Eau imperiale di Pierre François Pascal Guerlain, suo ideatore  in nome e in onore di Eugenia de Montijo, imperatrice di Francia e moglie di Napoleone III ? E soprattutto qual è il loro rapporto con le avventure investigative di Esterrina, protagonista indiscussa (e forse un po’ troppo saputella) di questo romanzo avventuroso di Lucia Bruni?  “Questione di naso” – sono le ultime parole del libro pronunciate dall’ispettore di polizia Felzani che, pur non avendo seguito granché il caso, ha creduto alle deduzioni, alle intuizioni e, in massima parte, alle illazioni della giovane contadinella ?

 Investigatrice in erba, la trovatella (innocenta – come si diceva delle creature di sesso femminile trovate nella ruota dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e spesso consegnate in affidamento a famiglie che finivano per adottarle e considerarle come proprie) è furba e perspicace e molto abile  a mettere insieme indizi spesso labili o apparentemente insignificanti (e anche quelli sfuggiti alla polizia), chiacchiere colte al volo, incontri clandestini visti di sguincio e informazioni desunte dai pettegolezzi di Velia, il tonitruante e massiccio oracolo del paesino di Querciaio, cioè laddove la storia si svolge. Esterrina è una ragazza “di carattere” e non si ferma di fronte alle difficoltà e ai rimproveri del misogino zio Agostino (che non vorrebbe che le donne si impicciassero di ciò che non gli compete) o del cauteloso parroco don Pietro che pure la asseconda.

 

«Nell’ultimo incontro con la maestra, avevano parlato di Jane Austen e di tutte le stucchevolezze – secondo la definizione di Esterrina – di quella scrittrice, così l’insegnante aveva pensato di cambiare genere. Le rincresceva che Esterrina non avesse potuto continuare gli studi per la caparbietà di Nanni e di Agostino, i quali non volevano creare privilegi fra le donne di casa. Guidarla senza un preciso percorso non le consentiva di mettere a frutto le sue risorse, non era facile tenere a bada una fantasia già fertile, così cercava di variare gli argomenti facendole conoscere autori e temi che l’avrebbero spinta a riflettere. Un giorno, chissà… Sapeva che Esterrina, appena possibile, sgattaiolava nella biblioteca della villa per soddisfare, sia pure in modo disordinato, le proprie curiosità» (p. 63).

 

Esterrina, dunque, legge libri che oggi definiremmo classici (come Orgoglio e pregiudizio della Austen) o libri di successo dell’epoca come i feuilleton della Serao (Il romanzo della fanciulla, in questo caso), si interessa delle vicende culturali del suo tempo (è incuriosita dal fatto che la contessa si faccia fare il ritratto dal celebrato – quanto umanamente piuttosto sgarbato e presuntuoso – Giovanni Boldini, pittore delle “parigine”) e soprattutto ama svisceratamente la musica classica tanto da andare ad orecchiare (non c’è altro termine adatto per definirlo!) alle finestre del pianterreno della villa signorile quando ci sono concerti di pianoforte e si diletta in un caso fortunato ad ascoltare il giovane ma già consolidato pianista Alfredo Casella eseguire l’Opera 14 Clair de lune di Beethoven. Esterrina non è una contadina come tutte le altre, dunque, ma il mistero della sua nascita resta tale e non sarà rivelato. Sarà invece rivelato il legame che spinge un numeroso stuolo di farabutti e avidi borghigiani e cittadini a uccidere – anche se per accidente – il povero Egidio Zei colpevole soltanto di aver ritrovato per caso, in un mobile da restaurare trovato in bottega (così come accade in Il Club Dumas di Arturo Pérez-Reverte) dei disegni preliminari del Pontormo, schizzi che valgono più di diecimila lire dell’epoca. Tutto a partire da quell’odore delicato di profumo che la ragazza percepisce e individua come elemento dissonante all’interno della scena del crimine. Solo dopo essersi addentrata all’interno di una fitta rete di pettegolezzi e di storie d’amore più o meno felici o abortite o portate avanti per interesse e solo dopo aver trovato degli oggetti rivelatori (come nella migliore tradizione indiziaria alla Conan Doyle), il bandolo della matassa sarà sciolto felicemente.

Ma nel frattempo che cosa succede a Querciaio e nel romanzo che ne descrive vita morte e miracoli?

Le donne e gli uomini che lo popolano parlano – in italiano (poco poco), in francese (qualche volta – è il caso di Antoinette, la servante della contessa Françoise Crémieux) ma soprattutto in toscano pretto ed è un lussureggiare di ìcché, ad esempio, o di unn’è, di proverbi campagnoli e di espressioni tipicamente vernacoli. Basti leggere l’incipit del romanzo per rendersene conto:

 

«”O tu me lo da’ da te o lo piglio da me”. “Gli è mio e me lo tengo. E non ti provare a mettimi le mane addosso, sai!”. “Che credi, che abbia paura?”. Giulia allungò una mano, con mossa rapida agguantò il ciondolo che Ortensia teneva al collo e tirò con forza. “Oh, guarda, t’ha rotto la catenina, ‘gnorante ! Ridammelo… ridammelo, t’ho detto !”. Ortensia acchiappò Giulia per una manica del vestito e tentò di riprendersi il piccolo cammeo che quella teneva stretto nella mano nascosta dietro la schiena. “No, bellina, ‘un te lo do perché ‘unn’è più tuo, gli è di’mmi fratello; anzi, della mi’mamma”. “Ma te icché tu c’entri, vorre’ sapere. Egidio codesto me l’avea lasciato”. “Perché gli è un coglione, poveraccio, e ‘unn’avea coraggio di ripigliartelo. Ma la mi’ mamma la s’è accorta che patìa e allora l’ha mandato me”» (p. 7).

 

Questa perigliosa conversazione tra un’ex-fidanzata e la sorella del promesso sposo riguardo un cammeo appartenuto alla mamma di lui che era stato pegno d’amore tra i due è impagabile. Ma tutto il libro – ed è questo il suo maggior pregio e l’occasione di una godibile e trascinante lettura – è pieno e ricco di questo tipo di dialoghi spumeggianti e carichi di contrazioni, elisioni, rimandi ed epiteti vernacolari tanto da far pensare a una sorta di prontuario (anche se ridotto) di espressioni toscane doc. Per cui più che il valore della trama investigativa quello che conta (e che fa leggere) il romanzo è la forza e l’icasticità della sua lingua.

 

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)


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