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di Giuseppe Panella
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Marco Nicastro cerca il contatto diretto con il reale, abbandonando “il pensiero e le parole” in nome della sensibilità espressa direttamente dal testo poetico e provandosi a dare del mondo una visione diretta, trasognata, esperita personalmente e non in maniera astratta o sapienziale, costruita da trasalimenti e da trasparenze dell’ Io, intessuta degli arabeschi di una volontà di attraversamento dei suoi labirinti. Lo scrive lui stesso in una lirica appassionata verso la fine del libro:
«Stare tra le cose, / da esse lasciarsi intersecare / comprendendo ciò che ancora non è. / Permettendo l’apertura / e il discreto scambio di essenze / mutare, mutando l’altro da sé. / Inutili il pensiero e le parole»[1].
L’importante, allora, è cogliere poeticamente il mutamento umano. Le cose della vita sono lì ad attendere di essere colte come fiori o frutta dagli alberi dell’esistenza e quello che conta è saperle accettare, trovare in esse un respiro e un senso profondo, la loro intrinseca verità che le fanno vivere e trovare una consistenza tra di loro. “Ciò che ancora non è” è quello che l’uomo deve divenire nel corso del suo processo di mutamento sostanziale e di trasformazione intrinseco ed è ad essi che le cose servono come punto di riferimento essenziale.
Mutare continuamente è la legge dell’universo e solo nell’Altro da sé è possibile ritrovare se stessi in modo tale da farne un esempio e uno sviluppo sostanziali di come è possibile cercare la propria individualità in un contesto generale difficile e confuso. Rendere astratto questo processo (con “il pensiero e le parole”) significa viziarlo fin dall’inizio da una volontà di possesso della realtà che non ne rende agevole la comprensione e il rapporto privilegiato.
In una poesia di poco precedente, Nicastro aveva già espresso questa sua vocazione al confronto e alla rappresentazione di stati d’animo auto-sufficienti e capaci di racchiudere al loro interno tutto un mondo di affetti e di indicazioni per la vita:
«Notti fredde in cui ci smarriamo, / quando la continuità si rompe / a momenti frequenti. / Se issiamo il nostro vessillo / la bufera beffarda lo schiaffeggia; / se diamo voce alla nostra speranza / un enorme silenzio invade le nostre vie. / Darsi una direzione, non disperdersi, / è una fragile gemma che andrebbe custodita; ma il mondo mastica la sua abitudine / e tu non arrivi a distogliermi / dal mio monotono dondolio. / Forse noi vivevamo un tempo, / quando non sapevamo; adesso tumulti di suoni / ledono i nostri chiari diapason»[2].
“Darsi una direzione” è impossibile se non si abbandona la via già più volte battuta delle abitudini consuete e della monotonia quotidiana, senza compiere un deciso salto di qualità, senza cogliere il momento giusto per cambiare e crescere nel tempo e, se necessario, combattendo contro il tempo.
Tra voci concitate e “tumulti di suoni” e l’”enorme silenzio” che accoglie la speranza di mutare l’andamento della propria vita e la sua immobilità legata al futuro, la poesia cerca di scandire la propria voce con decisione e tenacia e riconquistare “i nostri chiari diapason” che ne affermano la funzione di verità e la saggia volontà di continuare conseguentemente a sperare.
La concezione della poesia di Nicastro è esplicita e viene espressa attraverso una serie di illuminazioni e di lampi di assoluta visionarietà coloristica (la predominanza del colore è una delle costanti nella sua scrittura poetica e ne rappresenta una delle caratteristiche predominanti).
Chi scrive coglie dei momenti e delle occasioni di verità in situazioni di grande semplicità e compostezza che gli permettono di verificarne la dimensione di veri e propri eventi.
«L’ATTIMO. Dopo ere di scarnificante attesa, / improvvisa illumina una tregua: per un attimo scosceso affondo / nel calore muto dell’esistere»[3].
Lo scatto conoscitivo (non concettuale né astratto ma vivente) arriva all’improvviso come una sorta di Satori di tipo Zen ma non per effetto di uno svuotamento della soggettività (come avviene sempre per i cultori di quella disciplina religioso-filosofica) quanto per un suo arricchimento improvviso, per l’arrivo in essa di contenuti che la arricchiscono enormemente e che sembrano essere stati misteriosamente convocati da un’istanza inconsapevolmente emersa da fuori.
La poesia ha precisamente questa funzione: dare all’Io la possibilità di rendersi conto della ricchezza del mondo esterno e di accoglierla dentro di sé.
Le parole devono accompagnare questo processo di crescita e renderlo trasparente: se, infatti, tutto rimanesse schiacciato all’interno delle profondità dell’Io, le ragioni dell’evoluzione successiva del soggetto non potrebbero apparire più in tutta la loro forza e la loro produttività.
In un contesto di questo tipico, la dimensione lirica della tradizione poetica si stempera e si annulla in un tono pacato di passione rammemorante e di confronto con l’angoscia del vivere.
La salvezza giunge dalla capacità di articolare il bisogno di chiarezza con il dolore della solitudine e con la necessità di trovare uno spazio in cui inserire la voce che non vuole tacere nonostante il silenzio assordante del destino e l’impossibilità del grido di rivolta (tutte situazioni che la poesia di Nicastro assolutamente si nega, preferendo il tono più piano e dolente del rimpianto e dell’accettazione della sfida nei confronti degli eventi non evitabili che compongono la sostanza bruciante della vita vissuta):
«LA SOLITUDINE DEL MOMENTO. Nel vento che sbadiglia / un esotico tintinnio, / plana con la notte un torpore di sensi. / Mantenersi fermo / allo straripare della verità / è compito arduo. / Implodono le parole in suoni appassiti / e non mi resta che abbracciare / la debolezza dell’essere vivo, / assuefacendomi fino all’ammaraggio. / Come tollerare nuove albe di dolore / in questa anestesia del piacere ? / Come riandare / a quella sperperata leggerezza ? / Silenzio, ancora silenzio. / Calme acque, / tornerò a voi un giorno / per rifondare la sostanza / che più non m’appartiene»[4].
Di fronte all’implosione delle parole usuali e usate, la poesia non può che recuperare la ragione immanente nel corpo (“la debolezza dell’essere vivo”) sprofondandosi completamente in esso.
Il silenzio rappresenta il punto d’approdo della ricerca poetica, un vuoto di parola inframmezzato da sensazioni e da sogni, da translucide incursioni nel mondo devastato degli affetti e dei sentimenti il cui piacere è annullato e “anestetizzato” dalla mancanza di passioni vive e violente.
Di fronte a questo oscuramento della visione e a questo azzeramento del senso profondo del vivere, non resta che rimandare a un altro tempo, a un altro tempo.
Nella scrittura ondulante e ipnotica di Nicastro, non resta che accettare l’emergenza di un evento salvifico o la capacità del presente di badare e bastare a se stesso:
«BARLUME. Trasparenza dell’essere / dinnanzi al nudo sentire; / squarci improvvisi di luce / lacrimano sulla nostra pace»[5],
recitano, infatti, alcuni dei suoi versi più densi e più significativi.
NOTE
[1] M. NICASTRO, Trasparenze, Salerno-Milano, Oèdipus Edizioni, 2013, p. 63. Nicastro è uno psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico ; di lui sono già uscite due libri : la raccolta poetica Kronos Eros (Patti (Messina), Edizioni Kimerik, 2008) e i fogli di diario contenuti in Pensieri psicoanalitici (Milano, Arpanet, 2013).
[2] M. NICASTRO, Trasparenze cit., p. 62. Il testo, pur facendo da pendant a quello successivo già citato, è perfettamente autonomo nella sua natura di cammeo.
[3] M. NICASTRO, Trasparenze cit. , p. 18.
[4] M. NICASTRO, Trasparenze cit. , p. 27.
[5] M. NICASTRO, Trasparenze cit. , p.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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